Martedì in seconda serata
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Raoul Bova e Chiara Francini in “Due”, foto di Fabio Lovino

«Come saremo fra venti anni? Come sarà il nostro matrimonio? Mi amerai ancora? E come?». Sono solo alcune della pletora di domande con cui l’ansiogena Paola mette alle corde lo spiazzato Marco ora che dopo venticinque anni di fidanzamento hanno preso la decisione di sposarsi. Ma sono quesiti che Epicuro non avrebbe posto. Il teorico dell’edonismo, del piacere come sommo bene, invitava infatti già nel IV secolo avanti Cristo non a godere dei piaceri transeunti, “cinetici”, che durano un istante, come spesso erroneamente si crede, bensì di quelli “catastematici”, durevoli, che ti mettono in condizione di assaporare a pieno il presente e che volutamente ignorano gli affanni dell’avvenire; un concetto per certi versi affine all’evangelico «non preoccupatevi dunque del domani a ciascun giorno basta la sua pena».

Ma che c’entra il filosofo greco con Paola e Marco? Tra l’altro loro sono i protagonisti (perfettamente interpretati da Chiara Francini e Raoul Bova in scena fino al 26 marzo all’Ambra Jovinelli di Roma e poi in tournée fino a maggio) di una vivacissima e leggerissima commedia, intitolata Due, che non ha alcuna pretesa filosofica ed è tutt’altro che un dramma analitico di coppia stile Scene da un matrimonio; bastano peraltro gli arguti accenti toscani di lei e quelli indolenti romano-calabresi di lui, a collocarla agli antipodi geografici e umorali delle cupe e dilatate atmosfere scandinave.

Comunque Epicuro c’entra. Sia perché viene più volte chiamato in causa da Marco, insegnante di educazione fisica e di zumba, ma con velleità filosofiche, sia perché il testo, opera prima teatrale del cineasta Luca Miniero, anche regista, è indubbiamente al giorno d’oggi coraggioso nella scelta tematica e ‘catastematico’, come direbbe Epicuro, ovvero dotato di un’impostazione a lungo termine. Porre il matrimonio come scelta consapevole e responsabile, tracciare un solco netto e non ambiguo fra convivenza e vita coniugale in un’epoca di dilagante terrore del ‘per sempre’ non è aspetto trascurabile. Certo la cifra drammaturgica è prettamente comica e sarebbe solo un pregio se spesso non si avventurasse alla ricerca dell’effetto perduto o non si involvesse in un finale surreale che annacqua la veracità.

A dar valore alla commedia contribuisce l’idea scenografica funzionale e simbolica di piazzare un letto-totem da montare e assi di legno che pendono dall’alto. Così come originale ed efficace risulta la trovata delle sagome cartonate che prendono vita incarnando le paure, i figli, gli amanti e gli scheletri nell’armadio della coppia. Ma a reggere dignitosamente il peso della commedia sono soprattutto una Chiara Francini un po’ ‘Sbirulino’, un po’ Mondaini, molto se stessa, versatile, esuberante ma mai macchietta, e un Raoul Bova, che oltre a provocare i gridolini delle fan, dimostra un’apprezzabile capacità mimetica. In questo senso più Eraclito che Epicuro, più portato all’arte del divenire che all’edonismo.

di Michele Sciancalepore, fonte Avvenire

13 Marzo 2017

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