Sabato 24 marzo ore 12.50 e 20.45 + domenica 25, ore 12.50 e 20.30 – Franco Mussida è un musicista, un ricercatore, uno scultore, conosciuto ai più per essere uno dei fondatori della PFM.  Sabato è il protagonista di Soul, il programma condotto da Monica Mondo su Tv2000. Un uomo poliedrico che ha fatto della musica il suo mestiere. La chitarra imbracciata fin da piccolo come autodidatta, copiando i movimenti del padre di nascosto, poi gli studi accademici in chitarra classica per poi ricominciare da autodidatta con quella elettrica. Il primo tour a quattordici anni e poi la fondazione della Premiata Forneria Marconi nel 1971. Suo è il brano simbolo della band “Impressioni di settembre”, emblema del rock progressivo italiano. Il 2015 è l’anno in cui le strade di Mussida e della PFM si dividono, ma non va perduto l’amore per la musica. Prosegue i suoi lavori di ricerca artistica e continua a portare avanti il progetto del CPM Music Institute, scuola di musica popolare contemporanea fondata nel 1984, che ha formato artisti come Gianna Nannini, Gianluca Grignani ed Enzo Jannacci.

La Premiata Forneria Marconi nota, nella sua sigla, come PFM, ha segnato immancabilmente la musica rock italiana. Una band “imparentata” con  i famosi complessi stranieri dell’epoca come i Genesis, King Crimson e i Pink Floyd. Ma da dove deriva il nome di questi precursori del progressive italiano? “Il nome deriva dall’amore per questo mestiere, un mestiere misterioso. Panificare è una cosa molto bella come tipo di attività, e l’attività musicale è mettere insieme flussi vibranti e cercare in qualche modo di appagare i sentimenti della gente. Un po’ come una sostanza primaria. Il pane è questa sostanza. Mauro Pagani aveva militato in un gruppo che si chiamava Forneria Marconi, perché il proprietario di questo negozio li aveva sovvenzionati. Poi grazie ad Alessandro Colombini, che era direttore artistico, ci suggerì di aggiungere “Premiata” all’inizio”.

Non solo un nome ma un’unione fatta di amicizia: “Eravamo amici nella musica. Tutti quanti ci sentivamo servitori di una causa che andava al di là di noi. In questo eravamo amici perché ognuno rinunciava a qualcosa di sé stesso. Era una vera esperienza di gruppo, quella in cui ciascuno può essere sé stesso perché c’è qualcun altro che fa qualcosa che tu non sai fare o non sei delegato a fare. Io mi sono sempre occupato di scrivere, cantare, suonare, arrangiare, fare tutte le cose che servivano a dare un’identità artistica al gruppo. Per fare questo non potevo occuparmi di altre cose, che erano però essenziali”.

La musica rock come elemento di comunione fra artisti, ma anche emblema di ribellione, di denuncia. “Il rock distruggeva, o aveva questa grande pregio, di mettere in crisi chi voleva inquadrare il pensiero libero. Aveva molto senso all’epoca perché c’era ad esempio il consumismo, regole che dovevano essere infrante. Adesso però quel ruolo si è un po’ esaurito perché è diventato divisivo. Dobbiamo essere seminatori di speranza, ma non perché dobbiamo essere buonisti, ma perché la vita va in questa direzione. Tenendo presente l’equilibrio tra il morire e il vivere, la funzione dell’operatore culturale deve essere sempre quello di pesare un po’ di più verso la speranza”.

Non solo la musica è la passione di Franco Mussida, ma anche altre arti come la pittura, la scultura, il teatro. “Io ho sempre cercato di mettere al centro la musica rispetto a tutto, perché la musica non è forma ma essenza. Cercare l’essenza in tante forme è una cosa molto arricchente, avendo sempre presente però cos’è l’essenza. In questo senso non ho mai voluto specializzarmi. Ho fatto esperienze molto alte e professionali per il teatro, certo, ma io volevo dare l’idea attraverso il teatro della sacralità della musica, qual è il suo meccanismo di relazione. E tutto questo lo rappresento anche visivamente attraverso opere. C’è tanto da raccontare”.

La musica diffusa in altre realtà, anche dal punto di vista sociale, come avviene all’interno del carcere di San Vittore e in altri dodici carceri d’Italia: “Andiamo ad offrire ai detenuti una chiave per l’ascolto della musica che possa consentire loro di fermarsi per tutto il tempo di una musica, ad osservare e osservarsi interiormente. È un lavoro sull’ascolto e quindi sulla capacità della musica di creare un ponte tra l’orecchio e il cuore. Lasciargli fare quello che ha sempre fatto: illuminare il nostro territorio interiore rendendo stabili alcuni aspetti di questo immenso vulcano vibrante ed emotivo, perennemente in eruzione, che deve essere bloccato per un attimo. La musica crea climi, spegne questo calore e lo rende osservabile”.

Domenica Monica Mondo intervista Mariella Enoc, piemontese verace, per nascita e per stile: sobria, riservata, elegante, tenace. Medico per formazione, manager per scelta, di imprese sanitarie, fino ad arrivare alla Presidenza dell’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù, un fiore all’occhiello a livello internazionale, un luogo di cura medica e umana, che festeggia nel 2019 i suoi 150 anni di vita. Una storia di carità, nata così e proseguita così, con l’affetto di tutti i pontefici, testimoniato dalle ante visite, dai loro donativi. Basterebbe rivedere la commozione di papa Francesco mentre cammina nei corridoi, mentre abbraccia i bambini ricoverati.  Una storia di carità che esula dagli ospedali in senso stretto, per andare a cercare i malati che non si fanno curare, nelle periferie di Roma o del mondo, come a Bangui, in Africa.  Una donna manager in un ambiente di uomini, sia il Vaticano che l’ospedale, dove le donne medico sono molte, ma poche con ruoli dirigenziali. Eppure la Enoc ci tiene a dire che non è stata scelta in quanto donna.  E’ una persona di fede, tenace, sostenuta da  incontri e testimonianze importanti che hanno segnato la sua vita; e senza la fede anche il suo lavoro sarebbe diverso, il suo sguardo all’umanità ferita, allo scandalo del male, soprattutto quello innocente, dei bambini.  

Voleva andare in Africa, quella era la sua meta, il suo obiettivo. Aiutare i deboli nella parte più povera del mondo. Ma il futuro aveva in serbo per lei una meta completamente diversa: “A 71 anni pensavo che avrei potuto fare una cosa che avevo sognato per tutta la vita, andare per periodi più lunghi in Africa. L’Africa difficile. Ma come sempre, i sogni rimangono sogni. Adesso vado in Africa per il Bambino Gesù…”.  “A me ha spaventato l’idea di dover venire a lavorare a Roma. Ci ho messo due mesi prima di dire sì al Segretario di Stato. Non conoscevo l’ospedale Bambino Gesù, sapevo che c’erano dei problemi, non sapevo fossero però a quel livello. Poi ho detto di sì. Ho fatto fatica un mesetto, avrei voluto essere tutti i giorni da un’altra parte. E poi di questo ospedale mi sono innamorata…credo che sia l’amore più grande che ho in questi ultimi anni della mia vita”.

Una lunga esperienza a capo di aziende, una lady di ferro che ha portato avanti per anni la sua attività manageriale in realtà diverse, e che ha compreso fino in fondo quali sono le qualità che un brano leader deve avere: “Il bravo manager è colui che sa rispettare, prima di tutto, tutte le persone che lavorano con lui, le sa apprezzare, sa tirare fuori il meglio di loro. Ogni azienda prima di essere fatta di macchine, prodotti, è fatta di uomini ed è su questi uomini che bisogna puntare. Per me il bravo manager è colui che sa lavorare di squadra, che partecipa le sue decisioni, poi le prende, ne assume le sue responsabilità, ma prima le condivide, le partecipa, le discute. È disposto anche a sentire delle critiche nei suoi confronti. Guai a quei manager che vogliono gli yes man intorno. E soprattutto si pone un obiettivo. Posto questo obiettivo si trovano le strade per percorrerlo”.

La storia purtroppo ci insegna che le donne a capo d’industria sono sempre troppo poche, sebbene gli esigui esempi esistenti abbiano sempre mostrato con forte convinzione, e soprattutto con i fatti, che una donna “al potere” ha sempre portato benefici e risultati concreti. Tanto che si è guardato all’eccezionalità di una donna in un ruolo così importante. “Nella mia vita ho fatto il manager dal primo giorno in cui ho iniziato a lavorare. Questa cosa della donna è un leitmotiv nella mia vita, che ormai mi lascia completamente indifferente. Sono stata scelta non perché sono donna, ma perché serviva un problem solving”.

La risoluzione delle problematiche viaggia di pari passo con la ricerca, opera per cui il Bambin Gesù è un punto di riferimento sia per i numerosi ricercatori che vi lavorano, che per le tecnologie all’avanguardia, tanto che al suo interno è nata una Cell Factory per lo studio di farmaci che curi le malattie rare. “Il nostro impegno è guarire e per farlo bisogna investire molto nella ricerca scientifica. Oggi il Bambin Gesù è a un livello altissimo grazie a chi ci lavora. Per i trapianti d’organo è il primo ospedale pediatrico italiano. Questa officina farmaceutica produce cellule modificate, cellule che curano senza ricorso ai farmaci. I costi di produzione sono molto bassi e permetterebbero di curare molte più persone”.

 

22 Marzo 2018

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