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‘Il figlio di Saul’ di László Nemes, venerdì 26 gennaio ore 20.55 su Tv2000, pellicola importante e pluripremiata: Oscar 2016, Golden Globe 2016, David di Donatello 2016, Gran Premio della Giuria a Cannes 2015. Due giorni nella vita di Saul Auslander, prigioniero ungherese che lavora in un “Sonderkommando”, un commando speciale collegato a uno dei forni crematori di Auschwitz.

 

 

Giudicato subito come un’assoluta rivelazione all’ultimo Festival di Cannes, poi insignito del Gran Premio della Giuria e osannato come un capolavoro dalla critica di tutto il mondo.

Saul Ausländer (Géza Röhrig) fa parte dei Sonderkommando di Auschwitz, i gruppi di ebrei costretti dai nazisti ad assisterli nello sterminio degli altri prigionieri. Mentre lavora in uno dei forni crematori, Saul scopre il cadavere di un ragazzo in cui crede di riconoscere suo figlio. Tenterà allora l’impossibile: salvare le spoglie e trovare un rabbino per seppellirlo. Ma per farlo dovrà voltare le spalle ai propri compagni e ai loro piani di ribellione e di fuga.

NOTE DI REGIA
di László Nemes

László Nemes
László Nemes

Chi sono i Sonderkommando
I Sonderkommando erano gruppi di prigionieri scelti dalle SS per accompagnare gli altri alle camere a gas, dopo averli rassicurati e fatti spogliare. Quindi rimuovevano i cadaveri, ripulivano tutto e bruciavano i corpi. Tutto ciò era eseguito a gran velocità, in quanto Auschwitz-Birkenau funzionava come una vera e propria fabbrica di morte a ritmi industriali. Gli storici stimano che nell’estate del 1944 migliaia di ebrei fossero sterminati ogni giorno. Ai membri dei Sonderkommando spettava un trattamento relativamente preferenziale: gli era permesso tenere il cibo trovato nei treni e avevano un minimo di libertà di movimento nell’ambito di un perimetro stabilito. Ma il loro lavoro era estenuante e in ogni caso venivano regolarmente eliminati ogni 3 o 4 mesi dalle SS per fare in modo che nessun testimone dello sterminio rimanesse in vita.

La fabbrica della morte
Ho sempre trovato frustranti i film sui campi di concentramento. Provano a costruire storie di sopravvivenza e eroismo, ma secondo me propongono di fatto una concezione mitica del passato. La testimonianza dei Sonderkommando è invece qualcosa di concreto e tangibile. Descrive in diretta il “normale” funzionamento di quella fabbrica di morte: la sua pianificazione, le regole, i turni, i rischi, i ritmi produttivi. Le SS usavano la parola Stück, pezzo, per riferirsi ai cadaveri, come se fossero oggetti prodotti in fabbrica. Questa testimonianza, insomma, mi ha permesso di vedere l’accaduto attraverso gli occhi dei dannati dei campi di concentramento.

Il punto di vista di Saul
Un aspetto molto problematico del film è stato quello di raccontare una storia di finzione partendo dal contesto di questa testimonianza. Non volevo trasformare nessuno in un eroe, non volevo neanche assumere il punto di vista dei sopravvissuti, né mostrare troppo di quella fabbrica di morte. Volevo solo trovare una prospettiva che potesse essere esemplare, ridotta all’essenziale, per raccontare una vicenda il più possibile semplice e arcaica. Ho scelto il punto di vista di un uomo, Saul Ausländer, un ebreo ungherese membro di un Sonderkommando, e mi sono attenuto strettamente a questa posizione: mostrare quello che vede, niente di più e niente di meno. Non si tratta però di una soggettiva pura, poiché sullo schermo noi vediamo Saul come personaggio: non volevo infatti ridurre il film a un approccio puramente visuale, che sarebbe stato artificioso, e ho preferito evitare ogni virtuosismo o esercizio di stile. Inoltre, quest’uomo è il punto di partenza di una storia unica, ossessiva e primitiva: crede di aver riconosciuto il figlio tra le vittime delle camere a gas ed è deciso a salvarne il corpo dai forni, trovare un rabbino che reciti il Kaddish e seppellirlo. Tutto quello che fa è legato a questa missione, che sembra completamente priva di scopo nell’inferno del lager. Il film resta tuttavia sempre legato al suo punto di vista e alla sua linea d’azione. Questa incrocia poi quella degli altri prigionieri, ma il campo è percepito per intero dalla sua prospettiva.

L’orrore fuori campo
Seguendo i movimenti di Saul, ci fermiamo davanti alla porta della camera a gas, per entrarvi solo a sterminio avvenuto per la rimozione dei corpi. Le immagini mancanti sono quelle della morte dei prigionieri; immagini che non possono essere ricostruite, né dovrebbero essere toccate o manipolate in nessun modo. Assumere il punto di vista di Saul vuol dire anche mostrare solo ciò a cui presta attenzione. Egli lavora ai forni crematori da quattro mesi e, come riflesso istintivo per proteggersi, sembra non fare più caso all’orrore in cui è immerso. Per questo motivo tale orrore rimane sullo sfondo o indistinto o fuori campo. Saul vede solo quello che gli occorre per la sua ricerca: questo dà al film il suo ritmo visivo.

Forme di rivolta
Nel film si svolge un tentativo di rivolta dei prigionieri che ebbe luogo di fatto a Auschwitz nel 1944, l’unica rivolta armata della storia del campo. Anche il tentativo di scattare delle foto è realmente accaduto: grazie a una macchina fotografica fatta arrivare ai Sonderkommando di Birkenau dalla resistenza polacca, 4 foto furono realizzate per testimoniare al mondo esterno quello che succedeva nei campi. Ho potuto vederle alla mostra del 2001 Mémoire des camps e mi hanno colpito profondamente. Saul sceglie invece una forma diversa di rivolta, che può sembrare irrilevante fuori da quel contesto. Quando sembra che non ci sia più speranza, la voce interiore del protagonista lo incita a sopravvivere per compiere un atto che ha un significato, un significato umano, sacro, ancestrale che lo pone all’origine della civiltà umana e di qualsiasi religione: portare rispetto per il corpo di un morto.

Regole sul set
Insieme al direttore della fotografia e allo scenografo abbiamo deciso, prima di iniziare le riprese, che ci saremmo attenuti a una serie di regole: “il film non deve essere visivamente bello e accattivante”; “non possiamo fare un film dell’orrore”; “seguire Saul vuol dire non andare oltre la sua presenza e il suo campo visivo e uditivo”; “la cinepresa è la sua compagna e lo affianca in questo inferno”. Abbiamo anche scelto di girare in pellicola 35mm e di usare solo procedimenti fotochimici tradizionali nei vari momenti della produzione. Era l’unico modo di mantenere una certa instabilità nelle immagini e quindi essere capaci di filmare quel mondo in modo organico. La sfida era quella di raggiungere il pubblico in termini emotivi, cosa che il digitale non permette. Queste scelte implicano anche un’illuminazione diffusa, la più semplice possibile, un unico obiettivo, il 40mm, e un formato ristretto, il classico 1:1.37, che non allarga il campo visivo come i formati panoramici. Dovevamo restare sempre al livello visivo del protagonista e seguirlo.

19 Gennaio 2024