“C’era un ragazzo – ha raccontato Panella al Tg2000 – che non aveva ancora compiuto 27 anni, in quella piana dove furono fucilati i monaci. Si chiamava Virgilio Cozzani, era un tenente di complemento del 45esimo battaglione coloniale musulmano a cui Maletti diede l’incarico di eseguire le fucilazioni a Shunkurti. Questo è il luogo che viene citato nelle fotografie di Cozzani. Cozzani girava con una macchina fotografica, scattava fotografie come tutti i ragazzi italiani in Etiopia, in quel periodo. Il 20 maggio fece alcune fotografie proprio il giorno prima della strage e poi anche il 21 maggio a Shunkurtì”.

“Nel retro della foto – ha rivelato Panella – c’è anche una annotazione fatta da Cozzani, di suo pugno: Debre Libanos, Cascì prigionieri, i Cascì erano i preti copti, 20 maggio 1937. E poi un’altra annotazione. Il 21 maggio 37, ‘ciao neh…’. Il ‘ciao neh…’ di questo ragazzo italiano, che nelle altre foto va a cavallo, sorride ma che poi si rende protagonista di una strage terribile, è quasi irridente. L’impressione è quella della banalità del male, di un giovane che ride e scherza prima di compiere una strage”.

L’attentato contro Rodolfo Graziani – avvenuto il 19 febbraio 1937 – è la testimonianza di come la conquista italiana dell’Etiopia – proclamata con il discorso di Mussolini il 9 maggio dell’anno precedente, non è affatto compiuta. La resistenza etiope controlla ampie aree del Paese e riesce a mettere a segno un attentato contro il Viceré addirittura nel cuore del potere italiano: il palazzo del governo ad Addis Abeba.

E’ lì che Graziani organizza una cerimonia per festeggiare la nascita del principe di Napoli Vittorio Emanuele di Savoia, venuto alla luce il 12 febbraio. All’appuntamento invita tutti i notabili locali ma anche i poveri della città per distribuire una elemosina.
Approfittando di questa occasione, due giovani eritrei, Abraham Debotch e Mogus Asghedom, scagliano alcune bombe contro Graziani. Sette sono i morti. Il Viceré viene ferito.

 

Ian Campbell, storico di origini britanniche residente ad Addis Abeba e massimo conoscitore di queste vicende, racconta ad Antonello Carvigiani per il Docufilm di Tv2000 Debre Libanos (2016 – regia Andrea Tramontano, a cura di Dolores Gangi): “Successe che nel febbraio 1937 si verificò un attentato contro la vita di Graziani mentre si trovava a presiedere un evento pubblico a cui stavano partecipando diverse migliaia di etiopi. Gli vennero lanciate contro diverse granate a mano, nonostante il sistema di sicurezza che era stato organizzato per proteggerlo. Queste granate gli furono lanciate addosso da una distanza ravvicinata, e lui rimase gravemente ferito. Per tutta la vita dovette soffrire le conseguenze di questo attentato, portando nel proprio corpo centinaia di schegge di quelle granate”.

Gli italiani scatenano una feroce vendetta. Per tre giorni Addis Abeba viene messa a ferro e fuoco. E’ una strage. Fonti etiopiche parlano di 30 mila vittime. Storici italiani dicono 3 mila. A condurre la repressione sono le camicie nere del federale Guido Cortese.

Il presidente dell’Associazione dei patrioti d’Etiopia, Daniel Jote Mesfin, spiega ancora a Antonello Carvigiani: Ad Addis Abeba dopo l’attentato si scatena una sanguinosa repressione guidata dalle camicie nere. La città viene bruciata, distrutta. Vengono uccise centinaia di persone, compresi donne vecchi e bambini. La città era un fiume di sangue. Fu un giorno nero nella nostra storia”.

Tre giorni di massacri e saccheggi. A raccontarli, c’è anche un testimone italiano: l’inviato del Corriere della Sera Ciro Poggiali, che in un libro di memorie, pubblicato nel 1971 scrive:

“Tutti i civili che si trovano ad Addis Abeba, in mancanza di una organizzazione militare o poliziesca, hanno assunto il compito della vendetta condotta fulmineamente coi sistemi del più autentico squadrismo fascista. Girano armati di manganelli e di sbarre di ferro, accoppando quanti indigeni si trovano ancora in strada . Vengon fatti arresti di massa; mandrie di negri sono spinti a tremendi colpi di curbascio come un gregge. In breve le strade intorno al tucul sono seminate di morti. Vedo un autista che dopo aver abbattuto un vecchio negro con un colpo di mazza gli trapassa la testa da parte a parte con una baionetta. Inutile dire che lo scempio si abbatte contro gente ignara e innocente”.

Le violenze non risparmiano la cattedrale ortodossa di San Giorgio. Lo descrive, ancora, Ciro Poggiali: “Sono stato a visitare l’interno della Chiesa di San Giorgio, devastata dal fuoco appiccato fuori tempo con fusti di benzina, per ordine e alla presenza del federale Cortese. Tutte le pitture sono andate perdute. Il Sancta Sanctorum è stato aperto e il ciborio contenente le tavole della legge è stato bruciato. Una cinquantina di diaconi che si trovavano raccolti nella casetta campanaria sono stati legati col proposito di lasciarli bruciare dentro la chiesa mentre bruciava, ma l’intervento di un colonnello dei granatieri impedì lo scempio”.

Questi tre giorni di massacri non bastano a placare Graziani, che è convinto che dietro all’attentato ci sia la Chiesa ortodossa di Etiopia e, in particolare, il monastero di Debre Libanos.

L’Etiopia è, infatti, un Paese cristiano, evangelizzato, secondo la tradizione, da San Frumenzio, nel IV secolo. Chiesa e impero sono i due pilastri che reggono lo Stato. Autorità religiosa e politica si compenetrano e si sostengono a vicenda. Il monastero di Debre Libanos è il centro di questa storica alleanza. Graziani vuole spezzarla. Crede che per consolidare la conquista militare italiana sia necessario schiacciare la Chiesa ortodossa.
Avvalora le notizie – mai confermate – secondo le quali i due attentatori si siano rifugiati nel monastero di Debre Libanos e pianifica il suo annientamento.

Il 18 maggio del 1937, il generale Maletti accerchia il monastero. Non è un caso che vengano scelti quei giorni: è la festa dell’Arcangelo Mikael e di San Tekle Haymanot. Una grande solennità religiosa. Moltissimi pellegrini raggiungo il monastero. Le truppe italiane le fanno entrare ma non uscire. E’ una trappola.

Il 21 maggio, preti, monaci e pellegrini vengono caricati sui camion militari e portati lontano dal monastero, per essere fucilati sull’altipiano di Laga Welde.

Racconta ancora Ian Campbell: “Ogni camion venne riempito con un numero di prigionieri variabile fra trenta e cinquanta, partiva un camion ogni trenta minuti, e questi prigionieri venivano portati in un sito molto distante sul bordo di una gola molto profonda. Circa 500 metri di profondità. Sparavano ai prigionieri riuniti in gruppi, e i corpi venivano gettati in corsi d’acqua profondi”.

I giovani diaconi vengo invece giustiziati in un altro luogo: Ingecha, vicino a Debré Berhan. Secondo il rapporto ufficiale di Graziani le vittime della strage ammontano a 449: 320 monaci e 129 diaconi.

Ian Campbell, però, è convinto che le cifre siano diverse: “I numeri riferiti da Graziani sono molto bassi. Sappiamo che il numero dei membri del clero – inclusi i monaci – non era inferiore al migliaio. Il numero totale delle persone assassinate nel monastero e dintorni è di circa 1.200 e il numero delle persone uccise a Debre-Berhan è di circa 800, inclusi i diaconi. Il numero totale delle vittime, però, è ancora incerto, perché mentre i nomi dei monaci erano noti, lo stesso non vale per i pellegrini che si erano recati lì per quella occasione”.

Complessivamente, vengono uccisi dalle truppe italiane tra le 1800 e le 2200 persone. Preti, monaci, diaconi, pellegrini giunti al monastero di Debre Libanos per pregare.

Si tratta della più grande strage di cristiani mai avvenuta in Africa.

15 Aprile 2024