Non ama essere vista come una sopravvissuta, perché una persona è sempre altro rispetto al momento della sua storia. Tanti gli appellativi che Edith Bruck si è vista tatuati nell’anima: la scrittrice ungherese in Israele, in Italia la sopravvissuta, in Ungheria l’ebrea. Una gabbia da cui non si può uscire e da cui, molto spesso, sono gli altri a non farla uscire. Eppure Edith Bruck custodisce al suo interno un tesoro prezioso, che altro non è se non la memoria. La memoria dei campi di sterminio dove fu condotta assieme ai genitori quando aveva dodici anni. Lì Edith perde entrambi i genitori ma riesce a salvarsi e a nutrire qualcosa che in un luogo come Auschwitz sembra impossibile: la speranza. Quella stessa speranza che oggi ci porta come preziosa testimonianza di uno dei momenti più oscuri della nostra storia, da cui trarre insegnamento per correggere il destino dell’uomo che sempre più sovente si abbandona al male. L’arrivo in Italia nel 1954 segna il futuro dell’autrice grazie alla conoscenza di Montale, Luzi e Ungaretti, ma è l’incontro con Primo Levi che farà di Edith testimone dell’Olocausto negli anni a venire attraverso le sue opere: “Chi ti ama così” diventa il primo scritto ad opera della seconda generazione di testimoni della Shoah, dove la Bruck ci rende inoltre partecipi della sua infanzia prima della deportazione e l’ostilità continua dell’Europa verso i sopravvissuti, anche dopo la guerra.

25 Gennaio 2018

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