Sabato 28 aprile ore 12.50 e 20.45- domenica 29 ore 12.50 e 20.30– Comincia con questo week end  “Speciale 68”,  la serie di Soul sul Sessantotto cattolico. Otto interviste di Monica Mondo di una esperienza che spesso si dimentica nelle rievocazioni di quel movimento.  Si parte con Mario Capanna e don Gino Rigoldi.

Mario Capanna

Politico, sindacalista, attivista, ambientalista. È difficile inquadrare Mario Capanna, ma è  facile ricordarlo per la sua militanza nella lotta studentesca del  ’68 e per la militanza  in Parlamento e nella società.  Inguaribile idealista, ambientalista, apicoltore…L’amore per la conoscenza lo porta a lasciare la sua Umbria per Milano e continuare gli studi: approda così alla Cattolica studiando filosofia sotto la guida di Emanuele Severino, e ne viene clamorosamente espulso a seguito dell’occupazione studentesca.  Sul suo ruolo da militante ha costruito tutta la sua carriera politica e letteraria, dedicando al “Movimento” libri e articoli e conferenze: la sua ultima fatica è “Noi Tutti”, il noi al posto dell’io, slogan di quel ’68 che vale la pena ritrovare  nella modernità, liberato dalle ideologie:  con uno sguardo alla persona che ha valore in sé, e non solo perché produce.

Le vicende delle lotte studentesche nell’Università Cattolica precorrono il ’68 italiano. La prima occupazione avvenne il 17 novembre 1967 in primo perché la spinta rinnovatrice del Concilio Vaticano II cozzava con una corazza di conservazione dell’Università. C’era ancora il “Giardino delle Vergini”, una parte del porticato da cui potevano accedere solo le femmine. La goccia che fece traboccare il vaso fu la decisione in estate di raddoppiare drasticamente le tasse di iscrizione, portando la Cattolica ad essere l’Università più cara d’Italia.  Chiedemmo di vedere i bilanci, seguì un no sprezzante. Da lì si arrivò alla prima occupazione, e quindi nel gennaio del ’68 la prima espulsione”.

Fervente cattolico, con la sua dedizione alla battaglia, alla politica, Capanna si è poi staccato dall’appartenenza alla Chiesa: “In seguito alle vicende della Cattolica che ci indussero un profondo rinnovamento. Basta leggere i vangeli, Gesù è stato un rivoluzionario, sui generis ma un rivoluzionario. Quindi noi notavamo uno scarto tra il messaggio evangelico originario, che in qualche modo il Concilio tendeva pure in mezzo alla resistenza a riproporre, e la pratica ecclesiastica, il conservatorismo. Ho maturato poi  una coscienza laica. Sono innamorato di una frase di Sant’ Agostino quando dice “Ama e fac  quod vis”, ama e fai quel che vuoi. Se ami veramente non puoi fare niente di male. La mia vita si ispira laicamente a questo principio”. “Io considero il Papa, questo Papa, Bergoglio, mio fratello. Quando lui parla di terza guerra mondiale a pezzi, perfetto lo diciamo in due; parla di mutamenti climatici che mettono a rischio il futuro umano e il pianeta, perfetto. Il no agli armamenti a partire da quelli nucleari pericolosissimi, la società dell’1%, perfetto.”

Interpretando a senso unico la teologia della liberazione, molti compagni di Capanna imbracciarono le armi. “Occorre fare una distinzione. Prima del 12 dicembre 1969, prima della strage di stato di Piazza Fontana, nessuno prima di allora si era organizzato per uccidere. E solo dopo che alcune delle minoranze dicono “Lo Stato uccide, allora lo faremo anche noi”. Io sapevo che la lotta armata, oltre l’aberrazione della violenza, non avrebbe portato da nessuna parte, se non a un vicolo cieco, come poi si è visto, e al rafforzamento autoritario dello Stato, come purtroppo è avvenuto”.

Il punto fermo per Capanna è sempre stato quello dei cattolici come portatori del valore della solidarietà. “Sentire l’altro, comunque la pensi, è un tuo arricchimento. La diversità è un valore con cui dialogare. Questo mi ha sempre ispirato e tuttora mi ispira”. “Il problema è la memoria storica, oggi i giovani non sanno nulla del ‘68. Nessuno lo racconta, i media non lo fanno, la scuola non lo fa e si ferma alla Prima Guerra Mondiale. I genitori stessi hanno paura di dire “ti sto facendo la predica”. Si tratta di una pagina che va conosciuta che non va riproposta meccanicamente, ma da cui trarre le lezioni utili per l’oggi”.

L’importanza del ’68 consiste in un punto: c’è stato. Da allora l’umanità sa che cambiare il mondo è possibile. Prima lo sapevamo dai libri, se avevamo letto Platone, in parte Gesù, i filosofi utopisti, Marx… da allora lo sappiamo per averlo sperimentato e toccato con mano. “

“Quando le idee camminano sulle gambe di milioni di giovani, di donne, di uomini, si strappano conquiste straordinarie, quando come oggi a prevalere sono la passività e la rassegnazione non si tira fuori un ragno da un buco.” Questo è l’esempio e l’attualità del ’68.

Il ’68 all’inizio non era assolutamente ideologico, poi, e mi pare questa una doverosa autocritica, finì, e in parte finimmo, a mettere il vino nuovo nelle botti vecchie. Era un movimento assolutamente spontaneo. Il termine contestazione, che nel linguaggio normale suona male perché vuol dire ‘bastian contrario’ ‘quello a cui non va bene nulla nemmeno le cose giuste’, ha un’origine nobilissima: il verbo ‘contestor’ cioè chiamo in testimonianza. Quindi il ’68 è stato una forza straordinaria perché i testimoni ad un certo punto si ergono in piedi e dicono: ‘Un momento io sto parlando di ciò che ho toccato con mano, che ho visto e io voglio cambiare il mondo. ‘ E’ questa la forza straordinaria che ha sviluppato il ‘68”

“Noi, insieme ancora possiamo cambiare il mondo, cambiando in primo luogo noi stessi. Il ’68 riesce a cambiare in parte il mondo perché aveva in primo luogo cambiato noi stessi. Bernardo Bertolucci diceva. ‘La sera andavamo a dormire pensando di svegliarci nel futuro’.”

 

Don Gino Rigoldi

Lombardo, è il prete del Beccaria, il carcere minorile di Milano. Più di 40 anni con i minori degli istituti penali, è il loro cappellano ed è un padre per tanti ragazzi che vivono nella “Comunità nuova”, ragazzi che cerca di reinserire dopo la detenzione, di aiutare con la formazione professionale, ragazzi a cui dà una casa da cui ripartire. Un cammino iniziato proprio quando giovane seminarista nel ’68 sognava di occuparsi di giovani. “Nel mio oratorio allora c’era tanta gente” – ricorda – “c’era anche il centro antimperialista, il parroco mi chiedeva: ma quelli vanno a messa? Con il tempo… rispondevo”. “La Chiesa allora sembrava molto conservatrice, molto alleata con i poteri forti, anche molto ricca, forse. E poco in difesa delle povertà, non perché non facesse la carità ma fare la carità è diverso dal difendere i diritti delle persone che invece devono avere gli strumenti di lavoro, di recupero della propria dignità. Da allora molto è cambiato, anche i vertici della chiesa si sono messi molto in dialogo.” Don Gino non nasconde però il rischio di una perdita della fede come trascendenza: “. “Se per trascendenza si parla di vita spirituale intensa e di contemplazione della faccia di Dio, quello credo di sì. Per essere più nella pratica sociale e nella vita quotidiana, nel costruire, nelle battaglie per la giustizia, per i lavoratori, ecc., quello sì. È come se la faccia di Gesù Cristo fosse un po’ confusa con tutta l’attività sociale e politica. Ma la voglia di preghiera c’è ancora anzi, questo è uno dei miei sogni: aprire a Milano una scuola di preghiera. Nella chiesa del Beccaria.” Un sacerdote che vive con i giovani e per i giovani con gioia: “ ci vuol poco con gli adolescenti per lanciarli verso una stima di sé che è la premessa per essere poi capaci di fare cose belle per gli altri: e questa è un’avventura bellissima.”

Il 68, un movimento per l’opinione comune laico, ideologizzato, spesso ritenuto anticlericale. Eppure molti di quelli che hanno fatto il 68 erano cattolici. “si iniziava a pensare “guardiamo in faccia i problemi della gente, difendiamo la giustizia, cerchiamo di capire anche quelli che non riescono ad esprimersi così da poter finalmente esserci”. C’era tutta una parte di povertà e desiderio di cambiamento che veniva compresso dalle autorità del tempo, da quelle politiche ma anche da quelle religiose. C’era tanta gente messa insieme che cercava di fare una vita bella e più giusta per tutti.”

Ma i valori del 68 possono essere recuperabili in un’accezione cristiana oggi? “Direi proprio di sì. Quando si parla ai giovani del Vangelo, dobbiamo spiegare loro qual è il sogno. “Vieni da me a fare il cristiano”,chiedo e qualcuno mi dice “Cosa devo fare? Andare a messa? Fare sesso secondo le regole che mi dicono? Non devo bestemmiare?” Bisogna dirgli che qui si parla di pace, non violenza, fraternità, uguaglianza, condivisione dei beni, comunità da costruire. Questo è il sogno. Allora un giovane dice “forse qui c’è qualcosa di buono, e se poi me lo dici tu di cui mi fido, proviamo a vedere”.

 

 

 

 

26 Aprile 2018

  •  
  • Montecitorio Selfie