MondaAvevamo lasciato Abramo a metà, non ancora del tutto “compiuto”: dopo la chiamata e il viaggio, la promessa e la soglia, ecco un’altra ultima prova: la fede, il sacrificio del figlio Isacco. Dopo che aveva lasciato tutto il suo passato alle spalle, per un futuro avventuroso, incerto e affascinante, dopo essere stato capace di lasciare le proprie abitudini (ma noi ne siamo capaci?) in nome di una promessa, ecco il momento della prova. E’ il racconto di Genesi 22,2-3: «Prendi tuo figlio, il tuo unico figlio che ami, Isacco, va’ nel territorio di Moria e offrilo in olocausto su di un monte che io ti indicherò». Un episodio che ha generato infine discussioni, opere d’arte, riflessioni teologiche e filosofiche. In particolare è Soren Kierkegaard il pensatore che ha preso spunto da questo brano per riflettere sulle varie dimensioni dell’uomo: l’uomo estetico (il don Giovanni), l’uomo etico (il marito), l’uomo religioso (Abramo). La Fede come sospensione, superamento dell’etica. La fede non è una morale, genera una morale ma non coincide con una visione etica, con una teoria, con un’ideologia. La fede entra nella vita e la porta all’estremo, la vita come prova, come lotta, come corpo a corpo: all’episodio di Isacco corrisponde quello di suo figlio Giacobbe che nella notte al guado dello Yabbok (Genesi 32,23-33) lotta con Dio. Una lotta che però porta alla vittoria, anche se con qualche segno: Giacobbe alla fine dello scontro zoppica perché colpito al femore. Abramo, Isacco, Giacobbe, nonno, padre e figlio. Una famiglia molto “umana”, descritta in modo cruda, realistica. Abramo è pronto a uccidere il figlio Isacco, Giacobbe ingannerà suo fratello Esaù. Quando riconosce il suo essere ingannatore (dicendo il suo nome all’angelo che glielo chiede) ecco che Dio gli cambia il nome: ti chiamerai Israele perché hai combattuto con Dio e hai vinto. Il corpo a corpo con Dio ci segna ma ci conduce ad una pienezza, alla vittoria.

 

15 Gennaio 2016

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