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Ascoltata la Parola di Dio, ci tocca farla nostra, trasformarla cioè in gesti concreti. Mi piace sottolineare un aspetto: la de­vozione a Maria è vera non perché si recitano formule o si è fedeli a tradizioni che arrivano da lontano, ma solo se essa – la tradizione – si fa imitazione e sceglie Maria come modello di fede e di vita cristiana. Mettiamo, perciò, insieme il messaggio delle letture e l’esempio che ci viene da Maria. Lo facciamo in questo Santuario a Lei dedicato, al quale guardano tanti cri­stiani sparsi nel mondo e che oggi saranno in comunione con noi attraverso la recita della supplica.

Mi sembra che il cuore del messaggio delle letture siano la fede e le opere. Il brano del Vangelo si è aperto con un grido di Gesù: “Chi crede in me crede in Colui che mi ha mandato; chi vede me vede Colui che mi ha mandato”; e San Pietro, nella prima lettura, ha ribadito il motivo centrale della fede cri­stiana: “Sappia con certezza tutta la casa d’Israele che Dio ha costituito Signore e Cristo quel Gesù che voi avete crocifisso”.

Accogliamo quest’invito e chiediamo al Signore di rafforzare la nostra fede e di renderla sempre più autentica. Una fede che sia esperienza dell’incontro personale con Lui; che – come ci ha ricordato il Salmo – ci porti a “gustare e vedere quanto è buono il Signore”; che orienti a una relazione costante con Lui nell’Eucarestia, nella Parola, nella Chiesa e nei fratelli, soprat­tutto gli umiliati. È la fede che fa sperimentare la vicinanza di Dio a noi e insieme fa sentire a noi il desiderio di essere vicini a Lui. È questa la fede di Maria che si è sempre fidata di Dio. Gli ha fatto sempre spazio, particolarmente dall’annunciazione in poi non ha mai smesso di fare riferimento a Lui; nel Magnificat ha riletto la presenza di Dio nella sua storia e in quella dell’ umanità; si è aggrappata a Lui quando il Figlio moriva sulla Croce e ha toccato con mano la forza dello Spirito a Penteco­ste. La vita di Maria è stata una vita affidata a Colui che, chia­mandola, certamente non l’avrebbe mai lasciata da sola.

Le letture di oggi, oltre a indicarci il contenuto centrale della fede – “Cristo e questi crocifisso” – ci invitano a tradurre la fede in opere. Appena Pietro finisce di parlare i presenti gli chiedono: “Che cosa dobbiamo fare?”. L’annuncio dell’ apostolo li porta a interrogarsi sul da fare perché entrino bene in sintonia tra loro la Parola e la vita, il cuore dell’annuncio e il cuore di chi ascolta. “Che cosa dobbiamo fare?” ce lo chie­diamo anche noi. Cosa fare perché la nostra fede non rimanga soltanto devozione esterna, non si limiti a qualche celebra­zione e non finisca con il canto finale di qualche Messa? Gesù nel Vangelo ci ricorda che chi rifiuta le sue parole si condanna da solo, perché rimane tagliato fuori da quella vita piena che Lui ha realizzato morendo in croce e risorgendo il terzo giorno.

Per dare una risposta alla domanda “Cosa dobbiamo fare?, mi rifaccio alle parole scritte da Giovanni: “Egli ha dato la sua vita per noi; quindi anche noi dobbiamo dare la vita per i fratelli; ma se uno ha ricchezze e, vedendo il suo fratello in necessità, gli chiude il proprio cuore, come rimane in Lui l’amore di Dio? Figlioli, non amiamo a parole né con la lingua, ma con i fatti e nella verità”.

Alla domanda su cosa fare per rendere autentica la nostra fede la risposta è: amare sino a dare tutto noi stessi per i fra­telli. La fede è dono di Dio e il modo migliore per viverla è farci dono ai fratelli, soprattutto ai più poveri, ai più disagiati, agli ultimi. Una fede che guardi solo il cielo, dimenticandosi della terra, è una fede morta; la fede c’è quando c’è la carità. Anzi la carità è il termometro della fede. San Paolo scrive ai Corinzi che senza la carità niente ha valore; né il dono delle lingue, né la fede che sposta le montagne, né la generosità che serve solo per mettersi in mostra. Senza la carità – dice ancora – siamo come delle campane stonate o, peggio ancora, come campane senza battacchio, inutili perciò. La carità, al contra­rio, rende luminosa la fede; ci rende credibili e fa diventare concretezza la verità che professiamo nel credo. Se la fede è accogliere il dono di Dio, la carità è farci noi dono per gli altri.

Giovanni, poi, fa presente il pericolo che come la fede anche la carità può essere generica! È facile, infatti, affermare: “Io amo tutti!”. Ma il Signore non si accontenta di belle, vuote e gra­tuite dichiarazioni d’amore, richiede una carità concreta, “con i fatti e nella verità”; capace di riconoscere le situazioni di ne­cessità, per soccorrere chi è senza tetto o senza pane, sia che sia nostro connazionale sia che sia immigrato. L’amore vero non è mai approssimativo; è preciso, pieno di gesti concreti. Così deve essere l’amore del cristiano. Oggi, purtroppo, assi­stiamo a una certa “filosofia della carità”, piena di tanti ‘ma’ e ‘se’. Non raramente capita infatti di voler essere noi a sce­gliere i poveri che ci piacciono, escludendo senza alcun imba­razzo tutti gli altri, dimenticando che in tutti, ma in tutti, Lui c’è. Riusciamo a pregare con fervore il Signore Gesù e nello stesso tempo, senza sentirci in colpa, a cacciarLo, per esem­pio, perché è immigrato, con la motivazione che ogni straniero – per noi Gesù – è un terrorista, un poco di buono o qualcuno da cui guardarsi. La carità vera ce la insegna Gesù, che nell’ultima cena, indossa il grembiule, lava i piedi ma si toglie il grembiule perché lo consegna ai cristiani di ogni tempo affin­ché continuino il Suo gesto. La negazione della carità è rinne­gamento della fede. Ogni gesto di carità è un atto di fede, ma non sempre un atto di fede è gesto di carità. Lo insegna la pa­rabola del Samaritano. Sollecitati dall’evangelista Giovanni, in­terroghiamoci: se chiudiamo il cuore al fratello bisognoso ri­mane in noi l’amore di Dio? Se chiudiamo il cuore a chi è po­vero possiamo partecipare indenni all’ Eucarestia? Senza la ca­rità rischiamo di far diventare la partecipazione ai sacramenti una pura formalità senza vita. Il contesto sociale nel quale vi­viamo ci mette quotidianamente a contatto con molte forme di povertà e di disagio sociale. Non è raro incrociare persone che non hanno nulla con cui vivere e che sono costrette a rovi­stare nei cassonetti della spazzatura pur di trovare qualcosa. Intanto in Italia si butta nelle pattumiere cibo per 8,7 miliardi di euro. È vero che non possiamo risolvere i problemi di tutti ma è anche vero che non possiamo rimanere inerti e indiffe­renti davanti al grido di dolore e di sofferenza dei nostri fra­telli. La carità, come una molla, ci spinge incontro all’altro per regalargli ciò che siamo e quello che abbiamo; per condividere quanto la Provvidenza ci fa arrivare ogni giorno, per far sentire meno solo chi è privo di lavoro e di speranza. Pensate a quanto bene verrebbe fuori se quanti oggi reciteremo la Sup­plica alla Madonna di Pompei decidessimo di fare un’opera concreta di carità! Sarebbe già una rivoluzione! Tante persone riuscirebbero a sorridere un po’!

Tra poco nella supplica diremo che il Rosario è la catena dolce che ci rannoda a Dio. Ma a Dio non piace pure un’altra catena, quella che ci unisce a chi ci sta accanto? Catena formata da persone che, vogliamo o no, ci sono fratelli. Anche in questo l’esempio di Maria è illuminante. Dopo il suo eccomi all’ An­gelo, in fretta, è andata a casa dell’anziana cugina ed è rimasta con lei per un tempo prolungato di servizio, di compagnia, di vicinanza caritatevole. Lasciamoci guidare da Maria perché an­che la nostra fede, il nostro quotidiano “eccomi” a Dio, diventi servizio concreto ai fratelli.

Continuiamo la nostra celebrazione invocando l’intercessione del Beato Bartolo Longo e della Vergine Maria. A Lei rivolgia­moci con le parole da Papa Francesco:

Vergine e Madre Maria

aiutaci a risplendere nella testimonianza della comunione,
del servizio, della fede ardente e generosa,
della giustizia e dell’amore verso i poveri,
perché la gioia del Vangelo
giunga sino ai confini della terra
e nessuna periferia sia priva della sua luce.

Madre del Vangelo vivente,
prega per noi.
Amen. Alleluia.

 

8 Maggio 2017

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  • Montecitorio Selfie