Martedì in seconda serata
Stefano Massini in una scena de “L’interpretazione dei sogni” – foto di Filippo Manzini

Richard Feynman, premio Nobel per la fisica 1965, affermò: «Se non riesci a spiegare qualcosa a uno studente del primo anno o a tua nonna allora non l’hai davvero capita». Stefano Massini, scrittore, drammaturgo, ormai anche performer, l’unico italiano ad aver vinto il Tony Award, l’Oscar del teatro americano, con il suo Lehman Trilogy, è forse il solo nel nostro Paese a saper rendere lampante e affascinante sia a un acerbo alunno che a una signora più che attempata i vortici, le vertigini e le ineffabili voragini che scaturiscono dagli studi sull’inconscio. In pratica l’artista fiorentino quel “qualcosa” l’ha davvero capita. E non è poca cosa dal momento che si tratta degli scritti dell’inventore della psicanalisi, Sigmund Freud. Non è un caso che da più di dieci anni Massini sviscera l’opera omnia del neurologo austriaco e in particolare quella da lui stesso definita “Bibbia della nostra contemporaneità”, L’interpretazione dei sogni, che quasi cinque anni fa vide la luce del palcoscenico con la regia di Federico Tiezzi e protagonista Fabrizio Gifuni.

Ma stavolta Stefano Massini non è restato dietro le quinte a fornire le parole agli interpreti, ha fatto il “mattautore”, ha preso per mano gli spettatori per guidarli in un viaggio di oltre cento minuti in una terra per lo più inesplorata e spesso inaccessibile, di certo oscura e selvaggia: l’io. Indossa tre vesti Massini: i panni di Freud, quelli dei tanti pazienti che affollano lo studio e la mente dello psicanalista sottoponendogli sogni, incubi e fobie, e quelli di se stesso che naturalmente gli calzano a pennello e rendono in quei frangenti più divulgativi la narrazione estremamente fluida. Alla fine L’interpretazione dei sogni, questo il titolo senza fronzoli, è indubbiamente un’esperienza che non conosce indifferenza e che si può vivere ancora oggi al Teatro della Pergola di Firenze dove ha debuttato per poi approdare a gennaio a Bolzano, Rovereto e Bologna e nella prossima stagione a Milano, Torino e Roma. L’aspetto sicuramente più convincente dell’allestimento è dato dalla poliedricità; non se ne esce con la sensazione di aver assistito a un monologo ma a una visione decisamente caleidoscopica. La ragione è molteplice, sia scenica che contenutistica. Un ruolo determinante in tal senso lo svolgono la scenografia dominata dal prevedibile ma comunque logico e suggestivo gigantesco occhio, le luci semi-celanti, le immagini oniriche proiettate sullo sfondo, le ficcanti musiche di Enrico Fink eseguite dal vivo, non una semplice colonna sonora ma suoni che sembrano dire “parole che non puoi permetterti di ricordarti”. Ma è la sinfonia di rivelazioni freudiane che rendono davvero vertiginosa e articolata la fruizione, a partire dal mantra che apre e attraversa lo spettacolo: “c’è sempre qualcosa di terribile e al tempo stesso splendido nell’attimo in cui decidi di guardarti dentro”. Quello che alla fine emerge con potenza lapalissiana è l’eclatante teatralità della dimensione onirica, l’assoluta simbiosi e osmosi fra sogno e teatro. Un’aderenza che Massini spiega così: «È lo stesso Freud che parla di “drammaturgia dei sogni” e usa esplicite metafore teatrali quando dice “Perché questo sipario che ogni notte appena chiudo gli occhi si apre e mette in scena uno spettacolo?”. Freud è il primo a mettere in primo piano la non “scartabilità” del sogno fino a quel momento considerato come un’attività secondaria quasi limitrofa alla follia o comunque invisibile e risibile e ciò che mi colpisce di più nella similarità fra teatro e sogno è che anche il teatro è generalmente bistrattato come attività secondaria, ludica, relegata nell’area dell’intrattenimento, parola che ho sempre detestato. Inoltre il teatro nei suoi vertici più importanti è sempre una sorta di seduta psicanalitica, basti pensare alla scena del dialogo fra Amleto e la regina madre».

In tedesco “sogno” si dice “traum”. Quindi il sogno come un “trauma” che infrange la barriera della razionalità che censura per giungere a una nuova presa di coscienza? Ieri sera all’inizio dello spettacolo sentivo della tosse in sala, poi è scomparsa completamente e la collego alla domanda. Era come se novecento persone si stessero rendendo conto che ognuno di loro aveva un trauma, nel senso di un conto sospeso con chissà quale sogno. Quindi i colpi di tosse iniziali erano, volendo psicanalizzarli, quasi delle forme di resistenza prima di lasciarsi andare? Credo proprio di sì, forse erano un diaframma, uno schermo per non entrare in contatto col proprio sogno celato, così come accade alla signora che soffriva d’insonnia, che ricordo nello spettacolo, a cui Freud dice “non è che lei non riesce a dormire, è che lei non si lascia dormire per paura di sognare”. “Vivere il proprio sogno”: è questo l’invito implicito che emerge dallo spettacolo? Senz’altro. Nello spettacolo ho inserito un passo da un testo che non è di Freud, I greci e l’irrazionale di Eric Dodds del 1922, in cui si racconta della spedizione di un gruppo di antropologi che all’inizio del secolo va alla ricerca di una tribù non contaminata dalla civiltà e la trova nel Congo. Una volta entrati in contatto però non si capiscono perché questi “selvaggi”, “incivili”, non concepivano la realtà come primaria e il sogno come secondario, ma profondamente connessi; quindi la realtà e il sogno non erano gerarchicamente una sopra e l’altro sotto ma allineati e nella vita reale i loro sogni diventavano attivi e fattivi. Nella scena finale c’è un’accorata e reiterata implorazione: “non te ne andare, guardami!”. In realtà è un appello a guardarsi dentro… È esattamente ciò che dice Freud: cerca dentro di te le soluzioni alle tue fobie e manie, non guardare al giudizio o al “like” altrui. Noi invece oggi tendiamo all’esibizione, non all’introspezione, ci esibiamo continuamente attraverso media, social, post, foto, video. Parafrasando Freud Stefano Massini “di cosa ha paura quando ha paura”? La mia paura riguarda tutte quelle minacce che non vedo. Ricorda in un certo senso l’aracnofobia: Freud dice che la paura del ragno concerne tutto ciò che ti colpisce senza che tu te ne avveda. Il ragno infatti se ne sta nascosto e tesse una tela invisibile ai tuoi occhi e finisci nella sua rete senza renderti conto. Ecco il mio terrore è di finire nella ragnatela che non posso vedere. A proposto di incubi: la pandemia. Tutti abbiamo ancora negli occhi e nell’animo quella scena del 27 marzo del 2020 in cui Papa Francesco solo in una Piazza San Pietro deserta e piovigginosa affidava a Dio l’umanità in balia della tempesta: a distanza di 2 anni e mezzo l’umanità ha perso l’occasione di guardarsi dentro visto quello che è successo dopo? Quell’immagine del Pontefice è stata davvero icastica ed evoca altri scenari che prima di allora ci sembravano impossibili e che relegavamo nella sfera dei disaster movies, tipo la metropolitana deserta di New York, la metropoli di Kiev al buio, l’olocausto nucleare, quello ambientale e climatico, la guerra ai confini dell’Europa, tutti incubi che si sono dimostrati concreti proprio perché l’umanità non sa guardarsi dentro. Il sogno teatrale nel cassetto o meglio dentro Stefano Massini? Continuare con questo spettacolo. C’è una cosa perniciosa che detesto nel teatro: appena fai una cosa ti chiedono di farne subito un’altra, obbligandoti a inseguire questo canto delle sirene di testi, idee sempre nuove. Io invece voglio tornare su cose già fatte ma con una profondità e maturità diversa. Quindi il mio sogno è far sì che ciò che è stato un sogno non si esaurisca ma continui a diventare il sogno di domani. RIPRODUZIONE RISERVATA

di Michele Sciancalepore, fonte Avvenire

8 Febbraio 2023

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