Martedì in seconda serata
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Fabrizio Bentivoglio, Michele Placido

“La verità è che alla fine io perdo”. Buio. Così si chiude L’ora di ricevimento, con l’amara ammissione di una sconfitta, con l’oscurità che cala e pervade l’animo del “professor Ardeche”, il personaggio principale dell’ultimo lavoro di Stefano Massini, con protagonista Fabrizio Bentivoglio e Michele Placido alla regia, che ha visto la luce al Teatro Cucinelli di Solomeo (fino al 16 ottobre, poi in tournée).

La perdita e la tenebra, che sigillano e suggellano due ore di spettacolo no stop, sembrano non lasciare spiragli e speranze e decretare inesorabilmente il fallimento del ruolo dell’educatore, della poesia e della bellezza che, ribaltando la famosa citazione dostoevskiana, non è più in grado di salvare il mondo. Eppure tutto era iniziato nel migliore e più rassicurante dei modi: un professore di lettere di scuola media inferiore che prima dell’avvio dell’anno scolastico si diverte con un ironico e simpatico monologo di venticinque minuti a immaginare e classificare accuratamente, sulla base della sua trentennale esperienza, i diversi e ricorrenti caratteri degli alunni: l’Invisibile, il Primobanco, il Fuggipresto, Panorama, Raffreddore, il Boss, il Bodyguard, il Falsario, il Rassegnato, la Campionessa, il Missionario, il Cartoon e l’Adulto. Tredici elementi dipinti con magistrali pennellate che farebbero ipotizzare una straordinaria capacità empatica da parte dell’esperto e navigato insegnante. Invece questa acuta disamina tipologica è in prevalenza frutto di cinismo e disincanto; il professore sembra ormai chiuso nella sua torre d’avorio a consolarsi in compagnia di Rabelais, Voltaire e Baudelaire, i cui saperi non è più in grado di condividere non tanto per colpa sua ma soprattutto perché la società, la scuola, la sua classe, i suoi “nativi digitali” non hanno più gli strumenti per decodificare e gustare la bellezza. E l’ambiente in cui opera il professor Ardeche non è dei più semplici: siamo, come precisa l’autore, “ai margini dell’area metropolitana di Tolosa, nel cuore dell’esplosiva banlieue di Les Izards”.

Massini, dopo aver offerto uno spaccato della crisi dei diritti civili delle lavoratrici di una fabbrica con 7 minuti, ci porta stavolta, sempre dopo aver attinto a esperienze vere e dirette, in una scuola dell’obbligo di periferia, paradigma esemplare di ciò che è avvenuto in molte parti d’Europa: la nascita di un crogiuolo in cui si lotta e ci si azzuffa per difendere la propria particolare identità. Islamici, indiani, cattolici, ebrei di diverse nazionalità compongono questa classe-mosaico di cui conosciamo i genitori che in un susseguirsi di quadri si avvicendano durante l’ora di ricevimento. I conflitti etnici, sociali e religiosi restano sullo sfondo della drammaturgia. In primo piano invece istanze e problematiche che denotano un sempre più nevrotico arroccamento identitario. Emblematica l’iperbolica, al contempo kafkiana e beckettiana, ma assolutamente vera come ci assicura lo scrittore fiorentino, vicenda della scelta del menù della gita scolastica che doveva mettere d’accordo mussulmani, indù ed ebrei. Al centro dunque un insegnante in trincea costretto a disinnescare mine piuttosto che ad accendere le menti dei suoi studenti. Fin qui il testo cupo e sarcastico, spietato ma salutare per la presa di coscienza che attiva. L’allestimento invece è tutto sulle spalle di un perfetto Fabrizio Bentivoglio che giganteggia sulla scena nei panni del professore circondato dai volenterosi giovani del Teatro Stabile dell’Umbria troppo spesso alla ricerca affannosa e inopportuna dell’effetto. Scarna ed essenziale la regia di Michele Placido che però è in grado di esaltare la parola e di cogliere appieno il senso profondo di tutta la pièce come quando ci confida: «Cosa manca al professor Ardeche? Non ha mai pensato di fare ai suoi ragazzi una carezza!».

di Michele Sciancalepore, fonte Avvenire

6 Ottobre 2016

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