Martedì in seconda serata

È impresa ardua sintetizzare Il Maestro e Margherita di Michail Bulgakov. Già la sua genesi fu complessa e faticoso il parto creativo: riscritto più volte fra il 1928 e il 1940, pubblicato post-mortem tra il 1966 e il ’67, ancora integrato e rieditato nel 2006. Al pari di questa tortuosità e laboriosità editoriale è il suo intreccio, vertiginoso, poliedrico, con piani narrativi e temporali che si intersecano e sovrappongono, registri linguistici che si succedono, tematiche cruciali che sgomitano fra di loro.

Definirne il genere è un’altra fatica di Sisifo: decisamente satirico con filone amoroso, voli low fantasy, incursioni nel sovrannaturale, venature mistiche e pennellate grottesche. A conferma di questa prismatica natura a metà fra la matrioska e il cubo di Rubik sono sufficienti alcune indicazioni sulla trama-ragnatela: c’ è il presente, che sarebbe quello della Mosca anni ’30, in cui Satana sotto nemmeno tanto mentite spoglie fa visita per riaffermare la sua esistenza fortemente in crisi a causa dell’ateismo imperante dell’Unione Sovietica; c’ è poi il passato con il periodo pasquale della Gerusalemme del 33 D.C. con un altro personaggio angustiato, Ponzio Pilato, lacerato dal senso di colpa per aver condannato l’innocente Gesù. I contesti e le storie pertanto si sprecano: il circolo letterario tronfio e supponente, il Teatro del Varietà, il Maestro che vede la sua opera denigrata e censurata e il suo amore sacrificato, Margherita, l’amante appunto, che sogna, vola a cavallo di una scopa e alla fine si ricongiunge all’amato.

Per decidere addirittura di adattarlo per la scena bisogna poi essere piuttosto incoscienti e in possesso di una capacità visionaria, selettiva e di una squadra attorica duttile ed eclettica. Presupposti questi che non sono mancati a Michela Lucenti ed Emanuele Conte, ideatori e realizzatori di questa libera trasposizione del romanzo dello scrittore russo in prima nazionale al Teatro della Tosse di Genova. Ne è scaturito uno spettacolo di teatro totale: 12 artisti sul palco e in platea, canti evocativi, corpi espressivi, un caleidoscopio di musiche dal vivo, recitazione su diversi registri, scenografie e luci funzionali, animazioni video originali e in perenne dialettica con la scena e soprattutto una danza che parla, quella di Michela Lucenti e del suo ensemble Balletto Civile. Un testo infarcito di elementi fantasmagorici e filosofici aveva in effetti bisogno della magia del teatro e dell’abbattimento della quarta parete per risultare coinvolgente e convincente. E le coreografie della Lucenti e gli stessi movimenti dei suoi muscoli comunicano tutta la polisemia che attraversa l’opera: eversione, poesia, denuncia sociale, tensioni, aneliti prendono letteralmente corpo in balli metamorfici che senza snobismo attingono a molteplici fonti, dal popping alla dancefloor, dalla technodance alle atmosfere del musical; danza contemporanea, insomma, estremamente eloquente e incisiva.

Una ardita ma armonica contaminazione è dunque la chiave della riuscita di questa missione a cui contribuisce in modo determinante l’apporto registico di Emanuele Conte astuto e abile nel selezionare e sintetizzare dal crogiuolo di tracce e filoni del romanzo due linee narrative su tutte: la paura della verità e il potere che diventa abuso e violenza. Il risultato è un incantevole sgomento.

di Michele Sciancalepore, fonte Avvenire

14 Febbraio 2018

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