Martedì in seconda serata

«Volevo raccontare un confronto generazionale tra un cinquantenne e i ragazzi di oggi». L’idea è semplice ma non semplicistica. Riuscire a catturare l’attenzione degli adolescenti, persuaderli a ritrovarsi in un luogo non di sballo, ma in cui a ballare siano i sogni e i progetti, senza le loro protesi tecnologiche a “postare” e immortalare una realtà che non viene poi vissuta bensì mortificata, non è così scontato. Non impossibile però, purché ci sia coraggio, sincerità, carisma e straripante simpatia. Tutte doti che non difettano a Michele La Ginestra che quella genuina volontà e aspirazione l’ha portata sul palco del Sistina di Roma con la lineare regia di Andrea Palotto e la partecipazione di un brillante Andrea Perozzi, di quattro ragazzi del laboratorio del Teatro 7 e 27 allievi dell’Accademia del Sistina.

È cosa buona e giusta è il titolo di questa nuova commedia musicale in scena fino al 20 maggio scritta insieme ad Adriano Bennicelli da La Ginestra che sostanzialmente interpreta se stesso concedendosi però anche alcuni suoi cavalli di battaglia tra cui il popolare e accattivante parroco “don Michele”. L’evocazione liturgica del titolo ha quindi le sue buone ragioni anche perché l’incontro fra l’attore affermato e alcuni giovanissimi, alle prese con le prove del canto “Vanità di vanità” in State buoni se potete, viene ambientato non a caso in un oratorio. E lo spettacolo ha il grande merito di ribaltare lo stereotipo di chi considera l’invenzione di San Filippo Neri un obsoleto reperto del paleolitico: il “sito archeologico” si trasforma in animata agorà dal sapore rivoluzionario. Cosa c’è infatti al giorno d’oggi di più “eversivo” di un posto in cui i giovani hanno la possibilità di ritrovarsi, divertirsi senza alienazioni, educarsi al volontariato, confrontarsi e ascoltarsi? Certo è tutto molto politicamente corretto e la coralità spesso serve a innescare l’exploit monologante e a dare l’abbrivio per una tirata o un “a parte” rivolti alla platea che, seppur incisivi di per sé, infiacchiscono il già esile sviluppo drammaturgico. Ma la poliedricità e l’eclettismo interpretativo del popolare attore romano fa da collante in un allestimento ben ritmato, a tratti esilarante e sempre pervaso di condivisioni autentiche.

Attingendo al suo prezioso scrigno di ricordi La Ginestra, infatti, crea una fluida ed efficace rete di svelamenti che suscitano languidi “amarcord” nei cinquantenni e sinceri stupori nei teenagers. Al centro di questa travolgente cavalcata di memorie la strada, il luogo deputato della vita negli anni ’70, quando si giocava a pallone nel pratone coi pini a fare da pali, o per le vie pronti a fermarsi quando si gridava “macchina!”, quando le partite si organizzavano «col citofono» andando a chiamare gli amici direttamente a casa e non inventando fantomatici gruppi su whatsapp, quando il “complesso” ce l’aveva solo Edipo o era sinonimo di band musicale e il gioco non era diventato un vizio compulsivo, quando i libri si prestavano e non si mandavano i “link”, quando il primo bacio arrivava a 16 anni. Disseminati, poi, fra queste gocce di memoria, una serie di inviti, sempre formulati con leggerezza, al risveglio della curiosità, alla riscoperta della bellezza. E infine La Ginestra, con un’audacia ben apprezzata, offre un’intima e poetica condivisione con uno struggente ricordo del padre «morto sorridendo». Insomma uno spettacolo con un obiettivo in partenza arduo se non utopico ma alla fine raggiunto forse perché, come diceva il filosofo gallese Bertrand Russell, «gli innocenti non sapevano che il progetto che volevano realizzare era impossibile, e proprio per questo lo realizzarono!».

di Michele Sciancalepore, fonte Avvenire

10 Maggio 2018

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