Martedì in seconda serata
Massimiliano Di Corato in “La nave dolce” / Maurizio Anderlini.

Bari – Sono trascorsi 29 anni e sei mesi eppure Eva Karafili ricorda ogni dettaglio di quella traversata notturna dell’Adriatico: il cielo stellato, la luna, il silenzio irreale di un viaggio quasi onirico. Il mare no, non lo ricorda, perché intorno a lei solo gente, tanta, migliaia di persone; e poi all’improvviso alle prime luci dell’alba un boato gioioso che alla vista delle coste si leva in cielo: “Italia! Italia!”. Sono passati quasi trenta anni da quell’otto agosto del 1991 quando Vito Leccese, all’epoca assessore all’igiene, insieme al suo sindaco Enrico Dalfino, vide approcciarsi sul molo Foraneo di Bari una nave paurosamente storta, stracarica di ventimila albanesi che si erano riversati tutti su un lato per salutare festanti la costa italica e abbracciare il loro italian dream a lungo coltivato e istigato dalle visioni “paraboliche” e patinate di un’Italia allegra e opulenta sponsorizzata dall’Italiano di Cutugno, dal gioco dei fagioli della Carrà e dalla Milano da bere.

Era la nave Vlora, presa d’assalto la sera prima sul porto di Durazzo mentre scaricava sacchi di zucchero di canna provenienti da Cuba. Lo zucchero restò in gran parte nella stiva e addolcì i palati e le speranze della fiumana di cittadini del “Paese delle Aquile” che dopo la disgregazione del regime dittatoriale osavano la fuga e occuparono quella che non a caso fu poi appellata “la nave dolce”. Amarissima fu invece la realtà dopo l’illusione. Vito Leccese, sgomento, capì subito di trovarsi di fronte a un fenomeno epocale, immane, senza precedenti. Il sindaco Dalfino, democristiano ispirato ai principi della solidarietà e dell’altruismo, non si rassegnò all’impotenza e tentò di mettere in atto una procedura di accoglienza coinvolgendo la protezione civile. Ma il diktat del governo fu di segno opposto: si decise per il rimpatrio con l’operazione affidata alla polizia mentre i ventimila venivano rinchiusi nello stadio dismesso della Vittoria. E fu il delirio: la canicola agostana, la fogna a cielo aperto, il rischio di epidemie, la lotta per l’accaparramento dei viveri gettati dall’alto con gli elicotteri, la stanchezza e la frustrazione per il sogno infranto crearono una miscela esplosiva e le scene di disperazione e delle reazioni militari fecero il giro del mondo. Dall’altro lato la proverbiale solidarietà dei baresi che portavano focacce e paste al forno, la denuncia di don Tonino Bello, vescovo di Molfetta, che dalle colonne di “Avvenire” lanciava la sua indignazione («sono sconfitti e umiliati gli albanesi; sconfitti e umiliati anche noi la nostra civiltà, che nella sbornia di retorica si proclama multirazziale, multietnica e multireligiosa, non sa ancora dare quelle accoglienze che hanno sapore di umanità») e l’inutile appello del sindaco Dalfino che non si rassegnava e ripeteva: «Sono persone disperate. Non possono essere rispedite indietro, noi siamo la loro ultima speranza». Ma Dalfino, insieme a Vito Leccese e alla giunta comunale barese, fu definito irresponsabile dall’allora presidente Cossiga, che ne chiese la rimozione dall’incarico. In 18mila furono rispediti in Albania, duemila circa riuscirono a fuggire e tra questi la stessa Eva, oggi mediatrice culturale a Bari.

Eva e Vito si sono ritrovati sabato scorso nel Teatro Piccinni, il più antico della città e da poco restaurato, in occasione della prima nazionale di La Nave Dolce, il cui titolo riprende il docufilm di Daniele Vicari, e non hanno potuto nascondere la commozione durante la visione di uno spettacolo, prodotto dal Tib Teatro e scritto e diretto da Daniela Nicosia, che ripercorre in poco più di un’ora in modo evocativo ed esemplare la drammatica vicenda della Vlora. L’autrice e regista bellunese studia gli avvenimenti, raccoglie testimonianze, indaga sul campo e crea un testo crudo e immaginifico al contempo in cui lo sviluppo drammaturgico procede attraverso tre diversi punti di vista corporali: il cuore del profugo albanese, le braccia di chi vuole accogliere, gli occhi di un bambino che assiste a scene inaudite. Il monologo intreccia le tre prospettive secondo un criterio più associativo che diacronico alla ricerca di impatti emotivi che, privi di una retorica sempre in agguato, fanno presa sulla coscienza collettiva di una palpitante platea. La scenografia è coerentemente pressoché nuda tranne pochi elementi simbolici, una sedia al centro, una gomena, una polaroid che scatta un’istantanea del pubblico e che argutamente annullerà ogni distanza fra l’ospite e lo straniero, fra “noi e loro”, come viene sottolineato nel testo.

Un’improvvisa cascata di bottigliette d’acqua sarà poi l’incisivo coup de théâtre, unitamente a laceranti botte musicali e alla visione finale dell’iconica immagine della Vlora straripante, contribuiranno a creare uno spettacolo che non si dimentica facilmente. Resta da ricordare l’interpretazione di Massimiliano Di Corato, duttile, travolgente e coraggiosa, accademica solo quando non riesce a nascondere la tecnica a cui si aggrappa nei numerosi cambi di registro e quando cede alla tentazione di esternare troppo. Ma traspare comunque la forza di questo giovane attore barese, nato tre anni dopo i fatti della Vlora, che ha partecipato alle ricerche drammaturgiche e ha ben chiaro dentro di sé il valore della ricchezza che scaturisce dall’accoglienza: «Quando arrivò la Vlora ci fu chi parlò di invasione – spiega Di Corato – la storia ha dimostrato il contrario: la nostra tradizione non è stata minimamente impoverita, anzi, si è arricchita, gli albanesi sono oggi quelli che ancora costruiscono i muretti a secco che i baresi non sanno fare più e i panzerotti più buoni li fanno loro». Uno spettacolo dunque «necessario», come lo definisce Daniela Nicosia, che avrà ancora una lunga vita attraverso tournée nei festival per evitare che trent’anni siano passati inutilmente.

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di Michele Sciancalepore, fonte Avvenire

 

18 Febbraio 2020

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