Martedì in seconda serata
Valerio Binasco, Mariangela Granelli e Cristina Parku in una scena di “Dulan la sposa” al Teatro Gobetti di Torino dall’11 ottobre.

«If you love me», il mellifluo, rassicurante e oleografico brano pop di inizio anni ’60 di Brenda Lee si dilata e si dissolve dopo poche note dolcemente in una inquietante funerea sonorità, presagio di nefasti accadimenti. L’adolescenziale «Se tu mi ami» del titolo della canzone lascia il posto a evocazioni foniche lugubri, alienanti senza nome né speranza. Basta solo questo ascolto musicale di una manciata di secondi per intuire che stiamo per assistere a un effimero incanto che precipita rovinosamente, voluttuosamente e delittuosamente verso un terribile schianto. È così che una bella e buona azione di evangelica misericordia corporale all’insegna dell’accoglienza si ribalta in misfatto mortale e mortifero. Vittima di tale vertiginoso e drammatico capovolgimento una ragazza straniera, prima accolta, poi anche tanto amata ma alla fine rimossa. A vestire i panni dell’apparente buon Samaritano un anonimo “Lui”, un uomo di mezza età, «un borghese medio medio», che si imbatte in una giovane “Lei”, anch’ essa anonima, migrante e mendicante, la ospita in casa, resta affascinato dalla sua solare bellezza, se ne innamora, la ama ripetutamente ma infine la cancella dalla faccia della terra. Tutto quanto vissuto e commesso in assoluto gran segreto anche perché, particolare per nulla trascurabile, lui sta per convolare a nozze con “La sposa”, il terzo personaggio di questo conturbante trinomio. Questo è lo scheletro drammaturgico di Dulan la sposa un testo di Melania Mazzucco pubblicato nel 1991, diventato un radiodramma nel 2001 e ora traslato sulla scena ma che dopo più di 20 anni ha conservato intatta la sua forza indagatrice delle umane ambiguità. Questo è infatti il fascino più viscerale della pièce che intriga quando si insinua nelle pieghe delle miserie e delle tenebre e invece risulta più datata quando esplicita le tematiche del razzismo etnico e della discriminazione sociale.

A intuire la peculiarità vincente di questa opera da camera è Valerio Binasco che sta sviscerando e allestendo lo spettacolo in questi giorni al Teatro Gobetti per lo Stabile di Torino dove debutterà l’11 ottobre per restarci fino al 30 e poi proseguire in tournée nel centro-nord. Binasco, dal 2018 direttore artistico dello Stabile e fresco di ulteriori premi per Le sedie di Ionesco che la passata stagione ha ottenuto i favori di critica e pubblico, ha indubbiamente potenziato la dimensione passionale del dramma infarcendolo di feroci colluttazioni e sanguigne fusioni fino a confezionarlo come un thriller a fosche tinte noir. «Mi accorgo che da un po’ di anni – dichiara apertamente Binasco – il mio lavoro ha la costante di interrogarsi sul sentimento più persistente nella storia dell’umanità: il conflitto scaturito da Ares ed Eros, guerra e amore. Se c’è qualcosa che mi interessa in questo testo non è tanto il razzismo che è di per sé evidente, lampante ma il rapporto violentissimo che nasce tra un uomo e una donna, una violenza che scaturisce da un amore patologico, possessivo. Mi interessa portare in scena l’amore malato che arriva a sfociare in femminicidi, uxoricidi, non per giudicare, ma per tentare di comprendere. Per me non esistono mostri ma azioni mostruose». Il regista, che in questo caso si è ritagliato il faticoso e intenso ruolo di “Lui”, ci confida che questa chiave di lettura gli è stata palese sin da subito: «Abbiamo a che fare con delle coscienze che non producono forza, orgoglio, impegno, luce. La sposa, ad esempio, riconosce la luce della coscienza ma decide di chiudere le imposte. Emerge così il vero tema della mia messinscena che è il luogo oscuro; i tre personaggi vivono nel segreto, lo coltivano e ci sguazzano dentro».

Emblematica a tale proposito anche la scelta scenografica: un ambiente asettico, un interno di un appartamento squadrato, una scena vuota, fredda, uno spazio incontaminato e gelido delineato da tre cornici, in prospettiva dal proscenio fino al fondo scena, tre “frame” che i personaggi devono ogni volta scavalcare goffamente come se stessero attraversando faticosamente tre livelli di realtà. Ma soprattutto è tutto bianco, un candore che si prepara a colorarsi di passioni sfrenate e pulsioni incontrollate. Un contrasto ovviamente voluto: «Più la scena è fredda – spiega Binasco – più posso chiedere agli attori di spingere al massimo la portata emotiva, fisica del dolore, del desiderio, della rabbia, della violenza ». E in effetti non si risparmiano le due colleghe sul palcoscenico. Mariangela Granelli, già pluripremiata, dà vita alla sposa con tre interventi che le farebbero vincere all’unanimità la Palma d’oro o l’Oscar di “miglior attrice non protagonista”. Il primo fa da prologo e prolessi alla storia, il secondo è un incisivo e irruente svelamento in cui la sposa scopre l’amante segreta del suo novello sposo, il terzo è l’epilogo dello spettacolo che riannoda e ripropone la scena iniziale portandola alla sua tragica, spietata e avvilente conclusione. Cristina Parku, invece, veste i panni della straniera, in realtà ne incarna anche tutte le sfaccettature emotive e comportamentali riproducendo tra l’altro una perfetta cadenza esotica africana. È davvero talentuosa, forse non ancora consapevole della sua forza dionisiaca. Insomma ci si trova di fronte al classico teatro di Valerio Binasco che, come lui stesso ama definire, è una «narrazione che ricorre a tutti i trucchi possibili perché la storia arrivi dritta al cuore dello spettatore». E se si terranno a bada derive e tentazioni di compiacimento interpretativo, rischio di cui il regista e attore è perfettamente consapevole, ancora una volta ci troveremo di fronte alla creazione di «accadimenti impossibili», altra sua mirabile e spesso riuscita missione. RIPRODUZIONE RISERVATA

di Michele Sciancalepore, fonte Avvenire

10 Ottobre 2022

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