Martedì in seconda serata
L’attore Stefano Accorsi, il 2° da sinistra, durante un momento dello spettacolo teatrale “Azul” / Filippo Manzini.

«La realtà non sarà mai una per tutti, una per sempre, ma di continuo e infinitamente mutabile», scriveva Luigi Pirandello in Uno, nessuno e centomila. «L’arte concentra sotto i nostri occhi ciò che in natura è disperso», appuntava invece Giacomo Leopardi. Quindi da un lato la complessità della realtà, dall’altro la capacità di sintesi dell’arte. In mezzo c’è Azul, un’opera teatrale, vista al Teatro della Pergola e oggi e domani visibile al Teatro Era di Pontedera, che cerca invano di condensare la problematicità della vita. Ma il suo tentativo di restituire la poliedricità prismatica dell’esistenza è figlio di una propensione tanto onnivora quanto mordi e fuggi.

Azul, «azzurro» in italiano, è un colore inconfondibile, netto, ma la trama intessuta e diretta da Daniele Finzi Pasca, con un palmarès di teatro totale, creatore di grandi eventi olimpici, spettacoli del Cirque du Soleil e opere liriche, invece presenta contorni sfrangiati e contenuti frammentati. Esporne la sinossi è una fatica di Sisifo. Lo sviluppo drammaturgico di Azul, infatti, si dirama in innumerevoli rivoli, poi si avviluppa, poi sfugge e sguiscia via. Eppure i temi sono intriganti, gli spunti profondi, le pulsioni sincere e coinvolgono quattro amici, non al bar, ma in un luogo non luogo, salotto o spazio della mente non è dato saperlo. Ciò che si sa è che sono legati da un’amicizia inossidabile, condividono la passione calcistica per il Nacional de Montevideo, sono tutti privi di ricordi materni, e pieni di memorie paterne, hanno nomi archetipici (Pinocchio, Golem, Adamo, Frankenstein), sono furiosi e malinconici, gioiosi e permalosi. Il filone calcistico, che all’inizio si preannuncia come motore e conduttore della drammaturgia, non viene epicamente cantato alla Gianni Brera, né tuffato nelle atmosfere mitiche e viscerali di Nick Hornby, ma solo intonato con l’inno della squadra del cuore, stucchevolmente reiterato, ed evocato con poco edificanti risse da stadio. Per il resto c’è una spolverata di cabala con l’intrigante spiegazione simbolica del numero 36, un pizzico di esistenzialismo con le argute riflessioni sulla fragilità della vita, una manciata abbondante di ottimismo con l’invito sincero a godere appieno della felicità perché «non c’è stomaco che possa farne indigestione ». Tutti ingredienti molto sapidi ma non amalgamati. Anche il genere è inafferrabile, il che non è di per sé un limite, ma la contaminazione in questo caso aggiunge ulteriore disorientamento: c’è flusso di coscienza e serrata dialettica, illusionismo visionario e realismo descrittivo, astrazione e concretezza, e pure un improvviso sfondamento della quarta parete. L’unico caposaldo è che alla fine tutto si regge sulle spalle dei reattivi interpreti (Luciano Scarpa, Sasà Piedepalumbo, Luigi Sigillo, questi ultimi due suonano magistralmente dal vivo fisarmonica e contrabbasso) e soprattutto su quelle del brillante protagonista Stefano Accorsi. Ed è lui a confidarci l’impatto avuto con Azul: «Ho avuto un po’ di smarrimento quando ho letto il testo – ammette Accorsi – perché è un copione scritto in modo tridimensionale, in funzione dei rapporti e del corpo degli attori. Daniele Finzi Pasca non voleva che la sua opera venisse subito ingabbiata in una categoria, ma che ci si abbandonasse al flusso. E questo alla fine mi ha affascinato. La contaminazione in uno spettacolo mi si addice. Solo al cinema preferisco fare un’interpretazione mimetica mentre in teatro mi piace molto di più entrare e uscire dal personaggio».

Abbiamo visto uno Stefano Accorsi che nel dialogo diretto col pubblico si è trovato molto a suo agio, sprizzava gioia. «Sì, in effetti con lo spettacolo dal vivo avverto emozioni che non si possono vivere in altre dimensioni artistiche. Ad esempio se io sul palco indico qualcosa in fondo alla sala la gente si gira, se lo faccio al cinema non si gira nessuno. Perché rinunciare a questa meravigliosa opportunità?». La leva calcistica della classe ’68 di De Gregori è una citazione obbligata quando si parla di calcio come metafora dell’esistenza. Accorsi ha mai sbagliato metaforicamente un calcio di rigore nella vita? E ha avuto paura di tirarli? «Di rigori ne ho sbagliati tanti e non solo, anche calci di punizione, calci d’angolo, rimesse con le mani. Paura ne ho avuta, però la paura serve nella vita, gli errori più gravi si fanno quando si sottostimano i problemi. Dopo l’errore c’è il momento difficile da dover gestire ed è proprio questa la fase che devi attraversare e che ti insegna a vivere, a gestire i problemi della vita e a trasformarli in opportunità. Io questo l’ho capito tardi, avevo molta paura di sbagliare e quando accadeva venivo sovrastato da un senso di fallimento, solo dopo mi sono reso conto che chi ha successo ha anche un grande rapporto col fallimento». A proposito di fallimento stiamo assistendo in questi drammatici giorni al tracollo del bene e al prevalere del male. Quale ruolo può avere il teatro e l’arte in generale? «Durante una maratona professionistica non posso mettermi le cuffie per ascoltare la musica perché è equiparata al doping. Secondo me questa è la risposta giusta alla domanda perché questo significa che la musica e la cultura in generale hanno un influsso fortissimo sui nostri ormoni, sul nostro essere, visto che ci può mettere in condizione di essere più performanti e di vincere una gara. Questo la dice lunga sull’impatto della bellezza e dell’arte. Poi ovviamente l’arte è delicata come un fiore ed è molto più semplice calpestarla che accudirla. Educare alla bellezza è più impegnativo ma i soldi investiti in cultura sono soldi investiti in coscienza. Stiamo vedendo in questi tremendi giorni come la cultura e la bellezza si trovino disarmate di fronte alla brutalità, ma non è vero che non abbiamo imparato niente dalla storia; oggi tutti i Paesi occidentali si sono coalizzati contro la guerra e si sono chiesti come fermarla senza scatenare un conflitto mondiale atomico. Mi sembra una consapevolezza e responsabilità nuova che non c’era nel secolo scorso». Ultimamente nella serie tv Vostro Onore ha interpretato un giudice integerrimo che però accetta di mentire pur di salvare il figlio. Le è capitato di riflettere sul discrimine fra i salutari “no” da dire ai figli e l’abnegazione per la loro vita? «I “no” sono basilari. È importante educare ad esempio all’uso degli smartphone di cui siamo diventati tutti dipendenti come fossero delle droghe. Io ai miei figli metto un timer, un tempo di utilizzo, perché quando hanno il telefono non riescono a concentrarsi sullo studio, è più forte di loro. L’altro rischio che vivono è legato all’utilizzo dei social. È impensabile che una realtà come quella di Facebook, con un potere che produce una quantità di denaro folle e ha miliardi di utenti, debba essere concentrata nelle mani di una sola persona. La stessa cosa è accaduta anche in Russia e ne stiamo pagando le conseguenze».

E veniamo alla prossima impresa teatrale. «Con la Fondazione Teatro della Toscana abbiamo investito con la nuova drammaturgia e vogliamo aprirci sempre di più agli altri Paesi europei e del mondo. Prossimo film? Si chiamerà Ipersonnia, prodotto da Matteo Rovere. È ambientato in un futuro distopico, ma non impossibile, in cui i carcerati vengono messi in una forma di iper-sonno per abbattere i costi ma a un certo punto il sistema mostrerà le sue falle e mi è piaciuto perché è un genere che solleva questioni etiche». RIPRODUZIONE RISERVATA

di Michele Sciancalepore, fonte Avvenire

21 Aprile 2022

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