Martedì in seconda serata
Eleonora Danco e Federico Majorana in “Benvenute stelle”

Irrequieta, un’anima in pena ma che non fa assolutamente pena, anzi è invidiabile per l’innata generosità e apertura alle ferite sue e del contesto sociale che osserva e indaga incessantemente, minuziosamente, profondamente, mai dall’alto ma stendendosi letteralmente per terra, a livello marciapiede e strada. È sofferente ma non c’è in lei ombra di autocommiserazione. È in crisi perenne ma non si impalla mai. Dubita di se stessa sempre, aggiusta, asciuga, lima i suoi testi e le sue messinscene anche dopo il debutto con una maniacale pignoleria. È attraversata da una santa inquietudine, è un vorticoso rovello, però non si avvita su se stessa ma produce un’arte teatrale provocatrice e feconda. Tutto questo è Eleonora Danco, l’autrice e performer romana, ormai una realtà consolidata del panorama teatrale nostrano, oggetto in tutti questi anni di paragoni significativi ma anche arditi; è stata accostata ad esempio al geniale sguardo scrutatore di Pasolini, alla crudezza poetica di Sarah Kane, alla vitalità sfrontata di Gianna Nannini.

Al di là di suggestivi parallelismi che tentano di incastonarla in un’aurea di trasgressione ed eversione vi sono in realtà insospettabili ma evidenti peculiarità e principi tutti all’insegna del rigore e del metodo nel teatro della Danco: pochi sanno che da giovanissima ha recitato con una pietra angolare del teatro di parola, Vittorio Gassman, «una grandissima persona, un maestro, vederlo dietro le quinte mi entusiasmava, sembrava una statua, una colonna del foro romano», come lei stessa ricorda. Ma la vita di tournée non faceva per lei: «Non sopportavo le liti per i camerini, poi tutti a cena a raccontare la barzelletta». Ha amato Peter Brook, ha letto tutto Shakespeare, è instancabile nel lavoro sul suo corpo in scena e sulla sua mente a tavolino, è maniacale e perfezionista come si evince da questa sua confessione: «Sul computer ho tonnellate di pezzi scartati perché tendo sempre a levare. Sono molto precisa, non so improvvisare, purtroppo. Anche se le mie cose sembrano estemporanee, in realtà sono frutto di uno studio “malato”. Per arrivare allo stomaco dello spettatore passo prima attraverso il mio, e quindi tutto viene fortemente sentito, rivisto, stringato: pretendo il massimo quando scrivo, altrimenti non funziona. Ho sì un linguaggio poetico, astratto ma parto dalla realtà, da personaggi concreti, intervengo sul loro sistema nervoso e non sulla psicologia. Uso il dialetto come arroganza poetica, agli attori chiedo di essere asettici».

Queste sono alcune delle certezze che la Danco ci ha confidato e che in effetti traspaiono anche nel suo ultimo lavoro presentato al Teatro India di Roma e poi ancora in scena al Ridotto del Teatro Mercadante di Napoli dal 21 al 26 novembre. Il titolo è bellissimo perché lontano anni luce dalla realtà che racconta ma allo stesso tempo sintetizza un saluto che è una chimera necessaria, una cometa senza la quale non si potrebbe sopravvivere: Benvenute stelle. Il setting, il contesto è uno dei quartieri più problematici della Capitale e uno dei più emblematici del concetto di periferia: Tor Bella Monaca. Sinonimo di marginalità e povertà questa area a est di Roma fuori del Grande Raccordo Anulare è segnata da cifre oggettivamente deprimenti e preoccupanti: il 41 per cento delle famiglie vive in condizioni di povertà assoluta (la media nazionale è intorno al 7%) e il 22% ha un reddito pari a zero. Eleonora Danco non sciorina numeri, non fa analisi sociologiche ovviamente, ma lancia lacerti immaginifici, “lembi di vita” come li chiama lei: «Bambini con la sogliola che se la sognano, frigoriferi completamente vuoti, cubi grigi che cascano a pezzi, androni che puzzano di urina, ragazzi in carcere, rapine, spaccio, mazzate…».

Ma non c’è nemmeno alcunché di paternalistico, pedagogico o tantomeno pietoso in questi 60 minuti scarsi in un palco vuoto con forse un telo di plastica sullo sfondo in penombra quasi a evocare un rifiuto abbandonato sulla spiaggia e pochissime lame di luce che fendono il buio in modo astratto. E paradossalmente l’astrazione poetica caratterizza tutto lo spettacolo nonostante sia esclusivamente composto da immagini concrete e da visioni materiche crude, dure. Alla base dell’operazione c’è un teatro di ricerca. La Danco sa, come teorizzava Jacques Copeau, che «il teatro non nasce laddove la vita è piena, ma dove ci sono ferite, dei vuoti» e come l’artista francese del secolo scorso, pratica un teatro essenziale, sacrale che rifugge l’egemonia di una centralità culturale per esplorare e trarre linfa vitale dai margini, dai confini, dalle periferie.

«Benvenute stelle – svela l’artista romana – è nato da una serie di interviste nei quartieri difficili della Capitale e in particolare a persone che hanno vite estreme a Tor Bella Monaca, zona a cui sono molto affezionata e dove ho girato parte del mio primo docufilm N-capace. Lì ho trovato una situazione che mi ha davvero scossa, cose che sappiamo, gente che non ha soldi per mangiare o sfamare la prole, mamme che vivono con l’ansia che gli vengano portati via i figli dagli assistenti sociali». Fatti risaputi, condizioni note, ma di spiazzante c’è lo stridulo contrasto che attraversa e spacca la metropoli romana: «A 25 minuti di distanza da queste case fatiscenti occupate dove la miseria dilaga – ci racconta la Danco – c’è il “supermercato bio” dove trovi more essicate dell’Himalaya, sedanini di grano saraceno senza glutine e gomme ai fiori di Bach. A Tor Bella una ragazza di 26 anni ha già 3-4 figli e il compagno in carcere, cosa impensabile per una coetanea di un quartiere centrale come il Flaminio, eppure è la stessa città».

Contraddizioni e alienazioni che innervavano già i precedenti lavori da Ero purissima a Intrattenimento violento, a Deversivo, ma stavolta qualcosa è diverso: il flusso di coscienza, il fiume di parole, l’eruzione verbale, il romanesco che diventa canto e melodia in questo caso oltre ad aprire squarci di esistenze periferiche conducono in un viaggio endoscopico, introducono nell’animo stesso dell’autrice e performer e si avverte un intimo lirismo ancor più struggente. Rischia un po’ di infrangere quest’aura poetica la presenza spigolosa e a tratti dirompente, inedita finora, di un coprotagonista in scena, il giovane Federico Majorana, scelto dalla Danco per la sua innegabile forza selvaggia e sottoposto a ossessive sessioni di prove. Ma alla fine resta impressa questa vita sfogliata, non ci si dimentica dei capelli neri lucidi di Nadia e dei suoi bambini che «l’estate se la sono fatta dentro un pezzo di cemento e a tirarsi la palla dentro una discarica», o del marito Troy da 23 anni a Regina Coeli, o di Marco a 14 anni già rapinatore e in cella con 5 zingari, o di Giovanna con 3 ragazzini, una neonata, 200 euro al mese e Isee zero. Tutti con un presente di sopravvivenza e un futuro nerissimo, buio con le stelle uniche pervenute. RIPRODUZIONE RISERVATA

 

di Michele Sciancalepore, fonte Avvenire

 

14 Novembre 2023

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