Martedì in seconda serata

Quando alla fine del primo atto si assiste alla visione onirica della processione al funerale del padre di un Sigmund Freud nudo che cammina col bastone e a tratti indietreggia come sgomento di fronte alla bara che barcolla, allora la chiave di lettura registica diviene lampante: Freud come Edipo. Nulla di nuovo. Deduzione formalizzata già dai suoi discepoli che per il cinquantesimo compleanno gli regalarono una medaglia con l’immagine di un Edipo senza veli appoggiato a un bastone di fronte alla Sfinge. Però vederlo, proprio come il re-reietto di Tebe, investigare con ferrea capacità logica la mente e l’inconscio umano, risolvere enigmi ingannevoli e impalpabili ma anche atterrirsi di fronte ad agnizioni tragiche e ineffabili, andare incessantemente a caccia dell’uomo e quindi di se stesso per giungere infine a una condizione di impotenza, fa una certa impressione. Una bellissima impressione. E il merito è corale. E va in ordine gerarchico al Piccolo Teatro di Milano che ha voluto e prodotto Freud o l’interpretazione dei sogni di Stefano Massini, un “kolossal” che vede impegnati 14 attori, tutti impeccabili; allo stesso autore che ha intuito la vocazione scenica del famoso trattato freudiano ma anche la sua profonda valenza umana e sociale.

In sostanza Freud svelando e portando alla luce desideri sepolti, censurati, mistificati compie un atto rivoluzionario contro la dittatura del razionalismo e perbenismo e dà voce a chi non ne ha. Onore anche alla regia di Federico Tiezzi che sapientemente compensa l’oneroso impegno a cui lo spettatore è chiamato davanti a parole dense, concetti vertiginosi e poliedricità simboliche con scelte chiare e illuminanti: 16 porte delineano il perimetro della scena che aprono e chiudono stanze della mente del protagonista attraverso le quali si affastellano situazioni reali e oniriche, pazienti isterici, nevrotici, psicotici, un’umanità dolente implorante in modo più o meno celato un balsamo per un’angoscia profonda.

Luci, proiezioni, velatini, costumi, musiche, tutto concorre magistralmente alla creazione di un susseguirsi di set in dissolvenze cinematografiche. «Il mio primo film» dice il regista toscano con una punta di civetteria. Infine chapeau a Fabrizio Gifuni-Sigmund Freud abile equilibrista sul crinale delicato e sottile della dialettica sogno- realtà, saggio nella scelta di massimo controllo dei movimenti e con un carisma che gli permette di essere un potente magnete in scena. Furbetto ma suggestivo il finale fantasmagorico col corto circuito speculare sogno-teatro da non rivelare e tutto da godere.

L’intervista.
GIFUNI «Fare teatro è il rito della gioia»

Secondo il regista Federico Tiezzi, mente immaginifica e rigorosa del teatro dell’ultimo mezzo secolo, è «una simbiosi armonica e perfetta fra parola e corpo», caso raro fra gli interpreti nostrani. Lui stesso dice di sé di «sparire in favore del personaggio, di volerne sentire il respiro fino a sintonizzarsi con la sua linea del suono». Oggettivamente nel dialogare con lui si percepiscono vasta cultura, umiltà, passione e razionalità. Tutte peculiarità che anche stavolta ha messo totalmente al servizio dell’arte, in questo caso incarnando un personaggio epocale, cruciale, uno spartiacque imprescindibile nell’indagine sull’animo umano dalla fine del XIX secolo, l’inventore della moderna psicanalisi: Sigmund Freud. Ed è sul palcoscenico del Piccolo Teatro Strehler di Milano che incontriamo Fabrizio Gifuni dove fino all’11 marzo per due ore e mezza veste i panni dell’autore di quella che Stefano Massini, altro fervido uomo di teatro odierno, ha definito «la Bibbia della nostra contemporaneità»: L’interpretazione dei sogni. Massini ci ha pensato sette anni prima di creare una stesura drammaturgica ispirata al rivoluzionario libro dello scienziato viennese; Tiezzi che ne ha curato la regia non nasconde che si tratta di una delle sfide più ardue della sua carriera e Gifuni non ha avuto alcuna remora nell’aggirarsi nei meandri labirintici del cervello di quello che già dai suoi contemporanei fu visto come una sorta di Edipo vivente per la sua capacità di scrutare gli abissi della psiche umana e i suoi più terrificanti incubi.

Che cosa l’ha affascinata maggiormente di Freud?
«In primo luogo il coraggio, la caparbietà e la fragilità al di là degli stereotipi dello scienziato vincente che ha una risposta a ogni rovello onirico. È stato il primo ad avventurarsi in un territorio sconosciuto, consapevole che non gli sarebbe bastata una vita per capirne gli esiti. Il nostro Freud è diviso fra l’indubbia volontà di affermazione di se stesso e la profonda consapevolezza del fallimento a cui è destinato. Lui è il Prometeo che, conscio del dolore che subirà, comunque ruba il fuoco agli dei per donarlo agli uomini; è Giacobbe che tutta la notte lotta contro l’angelo e resta sciancato; è un povero vecchio ebreo condannato alla sconfitta. Da questo siamo partiti per non rimanerne schiacciati. Anche perché l’unico modo per me per accostarmi a personaggi di questa levatura è puntare sulle loro storture, fratture e ferite».

Freud ha teorizzato il conflitto fra vita voluta e vita vissuta tratteggiando l’uomo come una sorta di killer involontario dei propri quotidiani desideri. Lei ha mai vissuto questa dialettica o ha mai vestito nell’inconscio i panni dell’omicida dei propri sogni?
«In realtà no, perché quando verso i 22 anni feci il concorso all’ Accademia d’ Arte Drammatica lasciando gli studi di diritto fu come se avessi deciso di abbattere la distanza fra l’essere e il fare e da allora vivo un’assoluta aderenza fra sogno e realtà».

Quando è scoccata la scintilla del fuoco dionisiaco?
«Quando salii sul palcoscenico della scuola al liceo e interpretai Mercuzio in Giulietta e Romeo. In quell’occasione al termine di quelle poche repliche sentii nitidamente qualcosa mai avvertita prima che assomigliava molto da vicino alla felicità. All’ inizio per un po’ di tempo cercai di nascondere quella scoperta come per preservarla, era talmente bella e preziosa che non avevo voglia di comunicarla subito. Poi questa comunicazione ha spaziato dal teatro al grande e piccolo schermo».

Come vive il Gifuni, premio Istrio 2006 e Ubu 2010 o David di Donatello 2014 per Il Capitale umano, queste due diverse dimensioni interpretative?
«Il teatro per me è un rito in cui una comunità condivide un’esperienza che passa attraverso la fisicità che rappresenta la forza e il peso specifico dell’arte teatrale specie in un’epoca in cui i corpi sembrano essersi smaterializzati nella rete, nel web. È nell’incontro fra i corpi in scena e in platea, è in questo campo magnetico e osmotico che si decide la partita dello spettacolo. Invece nel cinema mi affascina in particolare il lavoro sul dettaglio con la macchina da presa che può pedinare i movimenti interiori, la possibilità di lavorare sullo sguardo».

Perché non sopporta sentir parlare di cultura come “tempo libero”?
«È una delle grandi storture di oggi, come se il teatro dovesse essere destinato a una dimensione temporale di evasione e di obnubilamento. Bisogna decidere una volta per tutte: se la cultura rientra nel tempo di scarto allora sono inevitabili i tagli; se invece pensiamo che debba essere parte fondante del tessuto connettivo e della crescita di una comunità allora gli investimenti vanno considerati necessari e basilari».

L’ultima e più difficile domanda: come si fa a conciliare la vita dell’attore con la passione per la famiglia? E non è ammessa la risposta: “la qualità sopperisce alla quantità”.
«No, concordo, non vale assolutamente. E come si fa? È un bel dilemma. Si fa fronte con delle scelte e rinunce a cui si giunge con determinazione, con gioia e senza rammarico alcuno. I figli sono il bene più prezioso e tutto il tempo che non riesco a passare con loro quello sì che è un tempo sottratto».

di Michele Sciancalepore, fonte Avvenire

29 Gennaio 2018

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