Martedì in seconda serata

 

Una scena della “Medea” diretta da Federico Tiezzi al Teatro Greco di Siracusa – ph di Maria Pia Ballarino

 

Il teatro totale di David Livermore appartiene al passato, così come le furiose scorribande delle Baccanti di Carlus Padrissa de La Fura dels Baus. La 58ª edizione di rappresentazioni classiche allestita dalla Fondazione INDA rinuncia a effetti spettacolari e a coup de thé’tre senza tradire però lo spirito sempre dirompente delle tragedie greche. Limita la durata degli spettacoli, rigorosamente sotto le due ore ma, dopo aver attraversato quasi indenne la parentesi pandemica, dopo esser pienamente rinata la scorsa estate, quest’anno è andata oltre, ha aumentato le produzioni e si è dilatata nel tempo e nello spazio. Sotto la guida recente di un’entusiasta Valeria Told il Teatro Greco di Siracusa offre fino al 2 luglio quattro spettacoli: oltre al solito trittico delle due tragedie più la commedia (in questo caso La Pace di Aristofane con la regia di Daniele Salvo) si è aggiunta una creazione originale contemporanea, Ulisse, l’ultima Odissea, ideata dal regista e coreografo Giuliano Peparini. Inoltre per la prima volta le rappresentazioni andranno in tournée da Pompei, al Teatro Romano di Verona, a Benevento, Segesta, Tindari e perfino all’interno delle mura dell’Arcimboldi di Milano a novembre.

L’unico allestimento che, a quanto pare, vivrà solo sulle secolari pietre siracusane è proprio quello che ha aperto la stagione: il Prometeo Incatenato di Eschilo con la sapiente regia di Leo Muscato. È la tragedia più immobile delle trentadue a noi giunte, priva di omicidi, spargimenti di sangue, tradimenti o ribaltamenti, eppure è un macigno che toglie il respiro. Prometeo, il Titano che ha creato la stirpe umana, qui virilmente interpretato da Alessandro Albertin, eroico sia pur con qualche accento di compiacimento, è presente in scena dall’inizio alla fine in tutti i 1090 versi del dramma ed è, come annunciato nel titolo, incatenato. A un costone di roccia nella Scizia, terra abbandonata ai confini del mondo, l’ha voluto immobilizzare Zeus per punirlo. La sua colpa? Aver donato, contro il volere del re dell’Olimpo, il fuoco agli uomini, ovvero la tecnica, la scienza e la conoscenza affinché fossero liberi e in grado di progredire sventando di fatto la loro estinzione programmata da Zeus. Assurge così ad archetipo dell’eroe che si mette contro la tirannia, il potere costituito e dalla parte dei più deboli, degli ultimi. In principio per Leo Muscato ci fu un’epifania: era in montagna alle prese con suo figlio di cinque anni recalcitrante a sciare e all’improvviso vide un ragazzino sulla sedia a rotelle ancorata a degli sci speciali indossati da suo padre. «Ridevano e se la godevano come non mai – ricorda il regista – e lì compresi quale sentimento avrebbe potuto abitare questo nostro spettacolo». La dedizione, la cura e la premura di quel padre, che crea una condizione di benessere inconcepibile per quel figlio in quelle condizioni, sono le stesse che animano il Prometeo di Muscato. E perfino di fronte a un’umanità che tradisce il dono paterno, che utilizza il fuoco per creare armi di distruzione, la tecnica per alienare e abusare della natura, la sapienza per invertire il progresso in regresso, anche di fronte a dei figli così sciagurati il padre-Prometeo non abbandona il suo sguardo di creatore pietoso: «Ricordo 30 anni fa – ci confessa il regista – pagai due volte per vedere lo stesso spettacolo, Il visitatore di Éric-Emmanuel Schmitt, con uno straordinario Turi Ferro che interpretava Freud e un impagabile Kim Rossi Stuart nella parte di Dio. C’era un momento in cui Freud affacciandosi alla finestra vedeva i nazisti alle prese con uno dei tanti rastrellamenti e urlando accusa Dio di essere passivo, inoperoso e silente di fronte a tali disumane efferatezze e Dio risponde: “Io all’uomo ho dato la libertà, quale altro atto di più grande amore e generosità ci può essere?”». A questo amore spassionato e puro fa da contrappunto e contrasto l’ambientazione tutta, squallida, sperduta e spettrale: è una “waste land”, una terra desolata, un sito di rovine post industriali abbandonate con una grande cisterna scrostata, tubi arrugginiti, una ciminiera alla quale verrà incatenato Prometeo. L’incipit dello spettacolo è agghiacciante: un fragoroso cancello si solleva e tra fumi e rumorosi cigolii avanza un carro sulle rotaie di un binario morto che trascina il Titano prigioniero e incappucciato. Da qui in poi si sviluppa questa tragedia che è statica per evidenti ragioni drammaturgiche: Prometeo è lì, immobile e intrappolato, e non può far altro che narrare, rievocare memorabili gesta tra rabbie e pene, svelare ignoti accadimenti del passato o predire quelli futuri, imprecare e inveire contro Zeus che reagisce in modo bizzoso e isterico con stridii e cortocircuiti elettrici provocando una comicità non del tutto involontaria. A conferire dinamicità al tutto quelli che Muscato con modestia definisce “trucchi del mestiere”: dalla parola estremamente visiva e dettagliata con la traduzione di Roberto Vecchioni, alla polifonia di voci, ai movimenti coreografici ben orchestrati da Nicole Kehrberger, alle musiche di Ernani Maletta. E poi le incessanti visite al dio umiliato e sofferente, da Oceano con il coro delle sue Oceanine, a Ermes, a Io, l’unica umana in tutta la vicenda a cui dà corpo, voce e temperamento una singolare e suggestiva Deniz Ozdogan che sbuffando, rantolando e levando al cielo canti e suoni ancestrali esterna il suo tormento di fanciulla prima sedotta e poi trasformata in vacca e condannata a vagare straziata dalle punture di tafani dal solito, crudele, cruento e sadico Zeus.

Strazi ineffabili, crudeltà insopportabili scaturiscono senza tregua dall’altra tragedia che si alterna sull’orchestra del Teatro Greco: la Medea di Euripide diretta da Federico Tiezzi. È la figura femminile archetipica, terribile, angosciante, la sciamana che viene dalla Colchide, la terra fuori dalla civiltà dove tutto è istinto e magia e dove sorge il sole, che fa da tramite tra trascendente e terreno, la selvaggia che per amore del suo sposo, Giasone, ha tradito origini e famiglia, ha ucciso il fratello, per poi venire abbandonata, ripudiata, esiliata per ragioni di realpolitik e per questo medita e realizza quella vendetta tremenda e indicibile che la segnerà come icona della madre infanticida: soffocando ogni pietà materna infatti sacrificherà i figli avuti da Giasone per punirlo e negargli la discendenza. C’è molto di freudiano nella visione di Tiezzi dove l’infanticidio non è un punto di arrivo ma di partenza: «La mia Medea – spiega il regista toscano – è foriera di una violenza arcaica, tribale, dionisiaca che si scontra con quella di Giasone subdola, sottile, “neocapitalista”, dettata da calcoli e opportunismi politici, dinastici, economici, ma non per questo meno lacerante e mortifera».

In pratica una guerra dei mondi, Dioniso contro Apollo, la giungla contro la civiltà occidentale. È come se un signore di Stoccolma sposasse una strega, figlia del re di una tribù dell’Amazzonia; con questa immagine molto traslata ma efficace Gabriele Lavia pennellò quella strana coppia in occasione dell’allestimento di una sua Medea una decina di anni fa. In ogni caso Tiezzi è come sempre insuperabile in quel lavoro di scavo sulla parola che porta alla luce significati eterni ed emozioni profonde. Infatti, al di là delle scelte scenografiche (una piuttosto anonima ambientazione borghese e una straniante apparizione finale di Medea su una gru-deus ex machina), è la potenza interpretativa a conferire qualità e fascino allo spettacolo. Laura Marinoni è una Medea colorita e perfetta, Alessandro Averone un Giasone insuperabile, Sandra Toffolatti un Nunzio travolgente. Insomma a Siracusa 2023 “verba manent”, le parole non volano via ma restano impresse. RIPRODUZIONE RISERVATA

25 Maggio 2023