Martedì in seconda serata
Un momento di “Fedra” di Federico Tiezzi – foto di Luca Manfrini

Sulle note di Je crois entendre encore, la nota aria dell’opera di Bizet, qui nella versione fluttuante e flautata di Koby Israelite, si apre lo spettacolo, ma non il sipario che invece resta chiuso. In realtà si tratta di un velario dorato e sfavillante davanti al quale in proscenio, proprio come nella visione del compositore israeliano, sinuose e sensuali ondeggiano due figure femminili con grandi ventagli di piume e paillettes. Al centro tra loro la Fedra di Elena Ghiaurov che canta per l’appunto l’accorato e struggente «Mi par d’udire ancora, o scosa in mezzo ai fior, la voce sua talora, sospirare l’amor!» finché all’improvviso la voce le si strozza in gola, viene risucchiata e inghiottita dal sipario, la musica si tronca bruscamente, buio, silenzio. Era evidentemente un sogno. Nella successiva scena reale o anch’essa onirica, come forse tutto il resto perché La vita è sogno (Calderón de la Barca docet), si assiste al dialogo fra Ippolito e il suo mentore Teramene a cui comunica l’intenzione di andare alla ricerca del suo libertino padre Teseo da tempo uccel di bosco e parimenti confessa il suo amore frustrato per Aricia. Finalmente si apre il velario dorato, nel frattempo adombrato, e si rivela quella che sarà per lo più la scena costante, ovvero un ambiente quasi vuoto, una sorta di scatola nera o una spoglia sala museale delimitata lateralmente da quattro busti antichi, con un divano-sepolcro, un paio di sedie in bilico, due enormi lampadari e sullo sfondo l’Atalanta e Ippomene di Guido Reni, perenne icona di passione e inganno letali. Questo è il succinto racconto dei primi dieci minuti della messinscena. E queste indicazioni scenografiche, musicali e registiche non possono che ricondurre a uno degli ultimi maestri della scena: Federico Tiezzi. È lui che ha fortemente voluto questa Fedra, non quella di Euripide, nemmeno quella di Seneca, bensì la tragedia in cinque atti scritta da Racine nel 1677. Un chiodo fisso sin dal 1984: «Fu il compositore Sylvano Bussotti a parlarmene per la prima volta e da allora ho sviluppato un amore assoluto per Racine perché le sue parole sono una riflessione continua, un eloquio magniloquente ma sempre denso di pensiero».

Ma Fedra è solo la più recente delle ossessioni del regista toscano che ha frequentato nel passato più o meno prossimo tutte donne in aperta lotta contro qualcosa o qualcuno; dalla Medea, sciamana della Colchide, che si scaglia contro la realpolitik e il cinico e opportunistico neocapitalismo di Giasone, all’Antigone proto-talebana in aperto conflitto contro il “nomos”, la legge, la giurisprudenza senza pietas di Creonte. Con la Fedra di Racine (una produzione ERT con Fondazione Teatri di Pistoia e Compagnia Lombardi-Tiezzi vista al Teatro Bonci di Cesena e da domani al 21 aprile allo Storchi di Modena) Tiezzi raggiunge l’apice dello scontro tra ragione e sentimento, Dioniso versus Apollo, e soprattutto ad affascinarlo c’è una novità assoluta che lui stesso ci confida: «Per la prima volta in maniera brutale con Fedra entra in scena il desiderio femminile». In realtà non è propriamente quello di Fedra un vagheggiar le stelle, ma un vero furore. È una folle passione che la pervade e consuma fino a farle agognare la morte già dalle prime battute della tragedia: «Muoio per non svelare questo nodo funesto» esclama infatti alla sua prima apparizione sulla scena la regina di Trezene, sposa di Teseo, matrigna di Ippolito, figlio di primo letto del suo marito. Ed è proprio il figliastro l’oggetto del suo amore furibondo, colpevole e ancora celato e al contempo il soggetto inconsapevole che le squassa anima e corpo. Ippolito, infatti, è ignaro di questa rovinosa e incestuosa brama, un tabù che oggi farebbe sorridere ma che qualche secolo fa faceva ancora rabbrividire. Ma anche lui coltiva un segreto, il suo amore per Aricia, nipote di Teseo tenuta prigioniera perché ultima discendente di una stirpe maledetta e nemica. L’inconfessabile, l’indicibile e l’inudibile viene poi svelato, detto e udito e ne conseguono calunnie e inganni, danni e fatali malanni. Alla fine resta solo Teseo che impotente assiste all’ultima morte in ordine cronologico, il suicidio di Fedra che si avvelena con una letale pozione fatta da Medea che si conferma esiziale anche quando è lontana e non fa nulla. La rovina è dunque assoluta e totale, ma non restano vesti strappate, orbite vuote e insanguinate, nemmeno quella verticale caduta di colonne, capitelli, busti marmorei, simbolo di una cultura classica in frantumi che aveva segnato la sua Antigone del 2018.

Con questa Fedra Tiezzi va oltre, la scena resta asettica, la Grecia classica è solo un lontano e polveroso ricordo, Edipo da mito si sta trasformando in complesso. Ed ecco che non poteva mancare nella visione di Tiezzi l’altro leitmotiv sempre in filigrana nelle sue ultime regie, esplicito con L’interpretazione dei sogni di Stefano Massini allestito sei anni fa, inevitabile in questo caso: l’analisi dell’inconscio. «L’ambientazione è una Grecia onirica – ci conferma Tiezzi – è la stanza dell’inconscio di Fedra e tutta la tragedia è una seduta psicanalitica, affiorano motivi ancestrali interpretabili solo con l’ausilio della psicanalisi freudiana». Personaggi come dei casi clinici con uno psicanalista al proprio seguito: «Fedra ha la sua nutrice Enone – precisa Tiezzi – Ippolito Teramene, Aricia ha la sua confidente Ismene. Ognuno di loro ha uno specchio». Altro minimo comune denominatore è la fuga, Ippolito fugge da Fedra, Aricia sfugge a Ippolito: «È un concetto proustiano – spiega il regista – che Proust mette in evidenza nella Ricerca del tempo perduto: si ama chi non ci ama. Nessuno ama la persona giusta, tutti sono in fuga».

Di certo non si fugge via da questo viaggio nei meandri della mente che dura due ore abbondanti durante le quali indubbiamente concentrazione e abbandono quasi ipnotico sono necessari: «Questo spettacolo – dichiara senza mezzi termini Tiezzi – è il contrario di “TikTok”; sono due ore in cui chiedo al pubblico un’attenzione estrema se no si annoia». Un rischio che davvero non si corre perché Federico Tiezzi è ovviamente un venerabile artigiano del teatro di parola e un impareggiabile nocchiero che fa solcare con godibile fluidità la sua imbarcazione tra le probanti procelle del verso raciniano semanticamente denso e potente, formalmente cadenzato e ancor più implementato dalla traduzione di Giovanni Raboni. La recitazione nel complesso coniuga abilmente la musicalità e ritmicità della poesia con la virulenta drammaticità dei moti dell’animo. Elena Ghiaurov è una superba Fedra e le parole del suo personaggio, «Sentii il mio corpo ardere e gelare», potrebbero essere una perfetta metafora della sua sanguigna interpretazione. Incisivi anche Valentina Elia, Marina Occhionero, Bruna Rossi e Massimo Verdastro. A volte invece il Teseo di Martino D’Amico resta un po’ frenato dai vincoli della metrica e l’Ippolito di Alberto Boubakar Malanchino è più a suo agio tra le pene d’amor mai avuto meno nel rispecchiare “la fiera rudezza delle foreste dove fu allevato”, per citare Fedra. In ogni caso il sapiente e preciso uso delle luci, l’efficacia delle musiche come contrappunto emotivo, la spiazzante bellezza dei costumi visionari e diacronici, il ricorso a movenze in slow motion e a un’espressionistica lotta mimata sono infine tutti valori che rendono l’intera rappresentazione esteticamente vincente e avvincente. RIPRODUZIONE RISERVATA

di Michele Sciancalepore, fonte Avvenire

2 Maggio 2024

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