Martedì in seconda serata
Una scena dello spettacolo “La scuola delle scimmie”

Si è decisamente concordi con Bruno Fornasari, autore e regista de La scuola delle scimmie in scena alla Sala Umberto di Roma fino a oggi, quando candidamente e obiettivamente chiude le note di regia affermando che la sua operazione teatrale aveva il proposito di «cercare di chiarire qualche dubbio e non riuscirci». La missione dubitativa del teatro è ovviamente sempre auspicabile ma l’animo, però, dopo aver assistito allo spettacolo prodotto dal Teatro dei Filodrammatici di Milano, esce carico sì di sane e sante inquietudini ma anche di altrettante meno salutari e quasi irritanti perplessità e confusioni.

L’opera letteraria è ambiziosa, coraggiosa e lodevole nello stile e nelle scelte tematiche: l’evoluzionismo contro il creazionismo, la ragione contro la fede, la ragionevolezza laica contro il fanatismo religioso. Ma nel tentare di dare forma dialettica a questioni che non si possono affrontare con un approccio manicheo si è sconfinato nella presunzione. Si slitta di continuo dal Tennessee del 1925 all’Italia del 2015 prendendo spunto da due fatti di cronaca distanti storicamente e geograficamente ma accomunati dal sonno della ragione. Da un lato John Thomas Scopes, professore supplente di biologia imputato nel «processo della scimmia», come venne definito all’epoca, per aver violato la legge che vietava l’insegnamento della teoria dell’Evoluzione di Darwin, dall’altro ancora un professore di scienze naturali, fratello del primo “foreign fighter” italiano ucciso in Siria, che vuole vivere la sua missione di insegnante come antidoto a ogni forma di radicalizzazione ed estremismo. In entrambi i casi il lume della mente contrapposto all’oscurantismo devozionista a cui si sovrappongono altre situazioni e personaggi, dai genitori di Scopes che speculano economicamente sul caso del figlio, all’allieva minorenne invaghita del “prof” il quale viene accusato di averla sedotta, alla preside vittima del sistema manageriale della scuola-azienda e altri mancano ancora all’appello, senza dimenticare però inserti video storici e contemporanei, abbozzi di analisi mass-mediologiche, cambi di scena a vista con tanto di balletti di primati, abbattimento della quarta parete con tentativi di dialogo fittizio con la platea e un finale corale in stile polifonico con prevedibile intreccio di voci, destini, deduzioni. Davvero tanto, troppo. E tutto sulle spalle di interpreti encomiabili e quasi sempre all’altezza nonostante qualche inevitabile affanno perché domina ansia e concitazione, come in alcuni verbosi e frenetici dialoghi delle commedie di Woody Allen, mentre qui certi argomenti meriterebbero il necessario respiro.

Ma il peccato originale sta nell’aver messo in atto una lotta impari, fuorviante e alla fine senza appeal dialettico fra bigotti versus professori illuminati, fra il capire contro il credere. Di conseguenza fanatismo rischia di divenir sinonimo di religione e la Bibbia un’arma dogmatica o una risibile favoletta. Assente la voce di chi crede che Dio sia amore e quindi armonia e non violenza e cecità. Un insegnamento che sarebbe stato senz’altro stimolante, anche in un’ottica prettamente drammaturgica, nella «scuola delle scimmie».

di Michele Sciancalepore, fonte Avvenire 

1 Aprile 2019

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