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I telegiornali di tutto il mondo danno la notizia che qualcosa è cambiato in Iran, un Paese che da sempre ha avuto un ruolo geopolitico strategico, dalle antiche tradizioni, da una storia millenaria. Già dalla fine del 1978 i giornali, compresi quelli italiani, seguono con attenzione gli eventi. Analisi, commenti, punti di vista diversi. E’ tutto un rincorrersi di fondi ed editoriali, di reportage e approfondimenti.

E’ il 25 gennaio 1979 e l’inviato de l’Unità Siegmund Ginzberg scrive sulla prima pagina del quotidiano fondato da Antonio Gramsci: “L’aeroporto di Teheran è stato bloccato dai militari. In un primo momento con la scusa formale di ragioni meteorologiche e per soli quattro giorni fino a domenica. Ma la pretestuosità della motivazione è stata dimostrata dal susseguirsi, durante tutta la giornata di comunicati contradditori sulla massiccia operazione militare all’aeroporto”.

I giornali della sera hanno parlato di chiusura a tempo indeterminato; un successivo comunicato del governo ha parlato di chiusura “per alcune ore” per impedire “un attacco di malintenzionati” aggiungendo che lo scalo sarebbe stato regolarmente in funzione. Ma a tarda sera l’aeroporto era sempre occupato dai carri armati e verso mezzanotte, in un notiziario straordinario, la radio ha diramato un comunicato del governo in cui si annunciava la chiusura di tutti gli aeroporti iraniani per tre giorni a partire dalla mezzanotte. Nella notte un commando ha sabotato la strumentazione dei due Jumbo 747 dell’Iran Air che dovevano andare a Parigi per imbarcare l’ayatollah Khomeini .

Una notizia che sottolineava i momenti convulsi e confusi in cui era piombato l’Iran in corsa verso un giorno che avrebbe definitivamente segnato la storia dell’ex Persia: l’11 febbraio 1979. Alle 11 del mattino la resa della Guardia imperiale dello Scià e l’apertura delle porte del palazzo di Niavaran, simbolo di un potere millenario. I guerriglieri islamici non trovano alcuna resistenza da parte del vecchio regime. Si insedia il primo ministro del governo provvisorio Mehdi Bazargan, subito riconosciuto dall’Unione Sovietica. Quanto agli Stati Uniti, il presidente Jimmy Carter, dichiara di essere pronto a stabilire momenti di dialogo e di collaborazione con il nuovo governo di Teheran. In realtà c’è preoccupazione. Dalle rovine dell’impero di Reza Pahlavi c’è la «Paura di una “Guerra santa” del petrolio» come titola il Corriere della Sera del 13 febbraio 1979. In un corsivo pubblicato al centro della prima pagina Michel Foucalt riflette: “11 febbraio 1979: rivoluzione in Iran”. Questa frase ho l’impressione di leggerla nei giornali di domani e nei futuri libri di storia. E’ vero che in questa serie di strani avvenimenti che hanno caratterizzato gli ultimi dodici mesi della vita politica iraniana una figura nota, infine, appare. Ma questa lunga successione di feste e di lutti, questi milioni di uomini nelle strade ad a invocare Allah, i mollahs nei cimiteri che gridano la rivolta e la preghiera, questi sermoni distribuiti in minicassetta, ed il vecchio che ogni giorno attraversava la strada in una cittadina della periferia di Parigi per inginocchiarsi in direzione della Mecca: tutto questo ci era difficile chiamarlo «rivoluzione».

Poi dalla cronaca si è passati alla storia. Nel gennaio 1979, dunque, Mohammad Reza Pahlavi lascia il paese per l’esilio in Egitto. Il 1º febbraio 1979 l’Ayatollah Khomeini ritorna a Teheran, salutato da milioni di iraniani. Il crollo finale della dinastia Pahlavi avviene poco dopo l’11 febbraio 1979, quando i militari iraniani si dichiararono “neutrali”, dopo che guerriglieri e truppe ribelli travolgono le truppe fedeli allo Scià in combattimenti armati in strada. L’Iran diventa ufficialmente una repubblica islamica il 1º aprile 1979, quando gli iraniani approvarono in larga maggioranza un referendum nazionale.

31 Gennaio 2019